Scegli il bene

05

In questo numero dedicato al tema “Scegli il bene” vorrei condividere il racconto che mio padre Lodovico ha steso in ricordo della sua esperienza come “angelo del fango” (termine che non gli è mai piaciuto) di 50 anni fa…

Geco Coinvolgente

Era una settimana che pioveva ininterrottamente quel Novembre del 1966, e a Firenze l’Arno aveva rotto gli argini e aveva fatto alluvione. Anche a Venezia c’era acqua alta – un metro e 20! – e c’erano allagamenti dappertutto nel nord Italia, ma le immagini dell’alluvione a Firenze erano impressionanti, e ci tenevano tutti incollati alla televisione che trasmetteva in continuazione quei filmati dei torrenti d’acqua e fango che correvano per le vie di Firenze trascinando le auto, e Piazza Santa Croce trasformata in un lago burrascoso, e le case di Ponte Vecchio sventrate con gli sfasciumi di legname incastrato in quel che restava delle antiche botteghe artigiane.
Anche a scuola – frequentavo allora la II^B al Liceo Manzoni a Milano – non si parlava d’altro, e quella mattina Paolone Setti lanciò l’idea di andare a Firenze: c’era posto il giorno dopo su un camion militare! Eravamo in vari nella nostra classe a voler partire, e l’idea del viaggio in camion militare era irresistibile; ma il giorno dopo il camion non era più disponibile – forse erano partiti tutti – così ripiegammo sulla Mini di Giorgio Zambon. Giorgio, simpaticissimo veneziano, era l’unico 18enne e già patentato della classe; ottenuto il permesso dei genitori, il pomeriggio siamo partiti in quattro, Giorgio Zambon alla guida del suo potente mezzo, la Mini rossa col tetto nero, dietro di lui il sottoscritto, (ero il piccolo della compagnia, praticamente con le ginocchia in bocca), di fianco a me Vittorio Domenichelli, padovano (abitava a Vimodrone, sede milanese della Domenichelli trasporti di suo padre) e davanti accanto a Giorgio Paolone Setti, incomprimibile sui sedili posteriori; zainetti ridotti al
minimo.
Guida sportiva sull’Autosole, e in meno di quattro ore a Firenze; tutto
apparentemente normale fin verso i viali esterni, ma poi abbiamo dovuto lasciare la macchina e proseguire a piedi, su strade viscide per la patina di fango che via via si faceva sempre più spesso. Oltre Santa Maria Novella, dopo la Stazione, il livello raggiunto dalle acque durante l’alluvione appariva chiaramente sulle facciate delle
case, e procedendo risultava sempre più alto, arrivando in centro superava nettamente il cornicione del primo piano, apparendo come una netta striscia nera, quella striscia lasciata dal gasolio e dalla nafta al momento culminante dell’alluvione del 4 Novembre; altre strisce nere più sottili mostravano i vari livelli lasciati dalle acque durante le ore del lento deflusso.
Si camminava in mezzo alla strada perché non era possibile distinguere i
marciapiedi ancora sepolti dal fango, che le ruspe cercavano di rimuovere caricando ogni tipo di camion; l’odore era di umido, di gasolio, di marcio. Così siamo arrivati, quando ormai faceva buio, davanti alla Biblioteca Nazionale, proprio davanti al Lungarno dove il fiume aveva superato e travolto il muro dell’argine.
Siamo entrati e ci sono apparse subito le dimensioni del disastro, ci siamo aggregati ai ragazzi che facevano la catena sulle scale che portavano al seminterrato, portando su pesanti volumoni intrisi di fango grigiastro e puzzolente; i volumi venivano accatastati a cerchio nell’atrio d’ingresso.
Dopo un po’ è arrivato un camion che doveva scaricare segatura, ha fatto retromarcia fin sui gradini davanti all’ingresso col cassone già alzato e, nell’urtare contro i gradini il cassone è sobbalzato ed è uscito dai cardini sulla sinistra; siamo accorsi in parecchi e con sforzi sovrumani dopo vari tentativi siamo riusciti a riportare in sede il cassone. Il camionista, commosso per l’aiuto ricevuto, ha offerto a tutti una sigaretta; io non fumavo, ma non potevo non accettarla: l’ho presa dicendo “grazie, la fumerò dopo”, e me la sono infilata nel taschino sinistro del giubbotto militare americano – tipo quello di De Niro in Taxi Driver – che portavo sopra al maglione blu degli scout; non avevo dietro altri indumenti.
[Questo maglione potrebbe essere noto ad alcuni di voi: è quello che ancora uso in attività]
Più tardi abbiamo mangiato qualcosa, pane toscano non salato con mortadella mi sembra; era la prima volta che assaggiavo pane toscano, e da allora lo associo al ricordo di Firenze alluvionata. Infine ci hanno detto che potevamo fermarci lì la notte,e ci hanno accompagnato di sopra, nella grande sala di lettura del I° piano, fronte Arno, dove ci siamo sdraiati sulle seggioline della sala: ce ne volevano 8 accostate su due file per potersi accovacciare alla meno peggio, col giubbotto piegato sotto la testa come cuscino, ma era pressoché impossibile dormire per la luce che entrava dalle grandi finestre: l’esercito aveva piazzato dei grandi fotoriflettori a Piazzale Michelangelo che coi loro fasci di luce abbagliante illuminavano a giorno la città.
Inoltre c’era un continuo via vai di camion che andavano a scaricare il fango direttamente nell’Arno dal Ponte di Santa Trinità, oltre Ponte Vecchio: la furia delle acque di piena, passando sopra il ponte, ne aveva travolto le spallette.
Il giorno dopo abbiamo ripreso il nostro lavoro di recupero e spostamento libri, con pausa pranzo sempre a base di pane toscano e mortadella o salame. Verso sera, dopo che ci eravamo radunati fuori dall’ingresso, abbiamo visto arrivare due Plymouth militari con targa A.F.I. (American Forces in Italy), e ne sono scesi alcuni uomini che a passo veloce si sono diretti all’ingresso: il più spilungone si è girato un attimo verso di noi, col suo ciuffo sulla fronte e i dentoni; mi sono girato verso i miei compagni esclamando “ma quello è Bob Kennedy!” Poi abbiamo saputo che era venuto a incontrare gli studenti americani, poco dopo il gruppetto è uscito, sempre quasi di corsa, e le due Plymouth se ne sono andate. In quel momento abbiamo capito: Firenze era in quei giorni il centro del mondo; noi eravamo al centro del Mondo!
[In realtà solo di recente mio padre ha scoperto che si trattava di Ted Kennedy, altro fratello del famoso presidente John F. Kennedy]
Quella sera ci hanno guidato allo scalo ferroviario di Via Reni, oltre Forte da Basso, dove abbiamo potuto dormire sui sedili allungabili dei nuovi vagoni ferroviari grigio e rosso-fegato, una sistemazione certo più confortevole delle poltroncine della biblioteca. L’indomani siamo ripartiti per Milano, e il giorno dopo abbiamo riferito la nostra esperienza in classe.
A quel punto sembrava che volessero partire tutti per Firenze, ma non c’era ancora stato il ’68, le ragazze in classe portavano tutte il grembiule nero, ed era escluso che i genitori le lasciassero andare all’avventura, anche altri nostri compagni sono stati frenati dai genitori, mentre non ci fu alcuna opposizione da parte dei professori. Così
il giorno dopo siamo ripartiti, chi in auto chi in treno, noi 4 della Mini sempre con Giorgio Zambon. In tutto eravamo 11 della mia classe e 11 della classe di mio cugino Carlo; tra di loro c’era anche una ragazza, una certa Nicca, che poi abbiamo ritrovato a Medicina, veramente coraggiosa.
A Firenze ora appariva tutto più organizzato; il lavoro si era trasferito al primo piano del chiostro della Biblioteca Nazionale, sul lato verso Santa Croce; i portici erano disseminati di tavoli improvvisati con assi e cavalletti, e ognuno al proprio tavolo doveva trattare un certo numero di libri; questi erano sistemati sulla destra, davanti c’era una risma di fogli di carta assorbente, e si dovevano separare una ad una le pagine di ogni libro, e spostarle a sinistra inserendo tra una pagina e l’altra un foglio di carta assorbente. Per i libri più antichi non c’erano problemi, era ottima carta di Fabriano e le pagine si scollavano facilmente, ma certi libri del primo ’900, specie certi libri fotografici con carta patinata, era tutto più problematico, mi dovevo aiutare anche col mio coltello scout.
Il tempo passava lentamente, il cielo manteneva coperto (credo di non aver visto un raggio di sole per una settimana) e a tratti tiravano folate di vento già invernale. Ci fermavamo a mangiare (solito pane toscano con poche varianti) e facevamo un giretto
intorno prima di riprendere il lavoro.
Ricordo l’impressione che mi ha fatto Santa Croce, la piazza devastata innanzitutto, poi la fascia color fango alta fino a 5 metri sulla facciata, i portoni aperti per arieggiare, e dentro ancora quella fascia di fango sulle pareti, la patina di polvere fangosa a terra, i monumenti a Galileo, a Foscolo, a tanti personaggi illustri d’Italia completamente imbrattati.
La sera attraversavamo la città, sempre più animata, passando da Santa Maria del Fiore, altre volte percorrendo il Lungarno fino a Ponte Vecchio per poi girare a destra verso Palazzo Strozzi, quindi su verso Santa Maria Novella e il piazzale della Stazione (dicevano che c’erano stati dei morti nel sottopassaggio), poi fiancheggiavamo la Stazione fino a Forte da Basso, quindi infilavamo il tunnel a sinistra, e infine su a destra in via Reni fin dentro lo scalo ferroviario al nostro treno
alloggio: ora avevamo le cuccette: io mi ero scelto quella in alto a sinistra. Miei compagni di scompartimento erano Guido Serra, Paolino Setti, Franco Bocci e il ricciolone Daniele Ferrario. Potevamo lavarci nel salone del dopolavoro ferrovieri e, dopo aver fatto crocchio fuori dal treno chiacchierando con i militari di guardia, ci
buttavamo sfiniti sulle cuccette, non dopo aver fatto girare la bottiglietta della “grappa alle pere” di Daniele Ferrario.
Così è passata una intera settimana. Quando siamo tornati avevo la febbre, che mi è durata almeno 10 giorni, accompagnata da forti mal di testa, forse un inizio di polmonite, con grande preoccupazione di mia mamma; tra tutto la mia assenza da scuola è durata circa un mese, fino credo a Sant’Ambrogio.
Un giorno ricordo che la mamma mi ha chiesto “e questa cos’è?”. Prima di mettere a lavare il giubbotto aveva vuotato le tasche, e aveva trovato quel che restava della sigaretta, piegata in due e mezzo svuotata del suo contenuto, ma ho voluto conservarla ugualmente per parecchio tempo: era il mio “souvenir” di Firenze.