Ciao! Cari ragazzi, le avventure di Oo, la tartaruga della Giungla Indiana, hanno visto il suo racconto di arrivederci, nello scorso numero di “Tuttoscout”. Che ne dite se un mio amico vi racconta la sua storia? Spegniamo il chiasso della giungla, delle nostre città, ed insieme avviciniamoci a questa nuova storia, vecchia di secoli, in silenzio, la storia di una città, Assisi, dove tanto tempo fa, tutti si conoscevano e si riconosceva un forestiero da lontano, come si riconoscevano i pazzi, i lebbrosi e i mendicanti…
È un pomeriggio tranquillo, il sole rimbalza tra le pietre delle vie, lungo le strade corrono bambini, giocano ai cavalieri, con le loro spade di legno. Tutti loro conoscono le storie di cavalieri, nessuno conosce le storie dei mendicanti: chi sono, come si chiamano, a nessuno importa nulla di loro. Ogni tanto una mano si abbassa verso quella ciotola che sta ai loro piedi: chi dà spiccioli, pane e chi, per divertirsi, mette sassi o scarafaggi. E i più sfortunati sono i lebbrosi, costretti a vivere fuori dalle mura della città, lontano dal pubblico passaggio, in capanne di legno o grotte, ammassati lungo un rigagnolo di acqua sporca, che raccoglie i loro escrementi. Qui la sofferenza diventa un’abitudine e il silenzio è il sollievo eterno per molti di loro. Qui non si ha paura del contagio e chi aiuta sa che l’altro sta peggio di lui! Mi chiamo Bartolomeo e non sono un lebbroso, almeno non per adesso e non conto di diventarlo. Un tempo avevo amici e parenti, una moglie ed un lavoro a Spoleto, costruivo mobili in legno, come mio padre. Ma i miei clienti mi pagavano quando potevano e magari con una gallina o delle uova o con i loro sorrisi ed una grande stretta di mano. Ero contento così, dovevo però pagare i materiali, le tasse e sostenere me e mia moglie, non troppo contenta di vivere così semplicemente. Lei voleva vestire come le mogli degli altri artigiani, voleva e voleva e voleva… credo, un altro marito! Ho cominciato a rifiutare alcuni lavori, finchè un giorno, ed è stata la mia rovina, ho accettato, sotto gentile consiglio di mia moglie, un grosso lavoro per un nobile, vecchio conoscente di mio padre, che mi commissionò un sontuoso scrittoio: intarsiato, di vario legname, con cassetti e cassettini e due sedie di paglia e legno con tessuto. Feci un grosso debito per anticipare il legname da lavorare, con lo strozzino venditore di vino della bottega vicino la mia, e avrei dovuto restituire a mastro Cosimo tutta la cifra più il quaranta percento, entro un anno. Dovevo solo lavorare di più per la felicità di mia moglie che così poteva comperarsi bei vestiti. Gli altri lavori non bastavano a coprire gli interessi chiesti da mastro Cosimo e neppure il nobile signore mi pagò per intero il lavoro dello scrittoio. Dopo un anno, chiesi un nuovo prestito e, non riuscendo a saldare tutti i miei debiti, alla scadenza, mi tolsero ogni cosa. E ora mi ritrovo ad Assisi, faccio il mendicante e sono contento. Mia moglie… ora commercia in vini ed è felice! Sono andato via da Spoleto per la vergogna, ho fatto fagotto con pochi vestiti e qualche arnese del mio mestiere, ho scaldato le mie gambe e sono arrivato a piedi, fino a qui. Riparo sedie, ceste e piccoli oggetti di legno, non chiedo soldi, ne ho quasi paura, mi danno da mangiare o mi regalano una camicia, se va bene un paio di scarpe, altri mi offrono da dormire nelle loro stalle, fra asini e pecore. Ho ricevuto anche calci, e un ragazzetto, un giorno, mi ha lanciato un sasso, rompendomi il naso. Ho pianto quel giorno: che diritto mai poteva avere, per farmi del male? Avevo paura delle malattie che giravano fra i mendicanti e delle guardie, così mi spostavo fra le vie di Assisi. Preferivo un posto vicino al Tempio di Minerva o anche a San Rufino, il Duomo. Molta gente passava, ma una sola mi è rimasta nel cuore. Se il marito era forestiero per affari, lei di sera usciva di casa, con una donna sua accompagnatrice, usciva a medicare ferite ai come me, causate dai maltrattamenti e dalla vita all’aperto, giorno e notte. Quando toccò a me esser medicato, fui turbato da tanta delicatezza, usata per evitarmi altro dolore. Avrà avuto la mia età e, dalle sue vesti, si intravedeva un leggero gonfiore, segno di una nuova vita felicemente manifesta. Le feci i miei migliori auguri per la nascita di suo figlio ed, al suo semplice grazie, osai chiederle, se avesse bisogno di riparare sedie. Mi chiese il mio nome e dicendomi che si sarebbe ricordata di me, tornò a casa. Con il passare dei giorni, la ferita al naso guarì, l’osso mi faceva ancora male, però riuscivo a respirare meglio. Per qualche tempo lasciai Assisi, alla ricerca di nuovi lavori. Non ricordavo il tempo dell’ultimo bagno caldo con del sapone, la nozione del tempo si perde se non si hanno riferimenti precisi. Ricordo d’esser scappato da Spoleto, a primavera iniziata e lungo le strade avvenne il mio incontro con gente come me. Camminavano, portando con dolore le loro piaghe, coperti solo di stracci, dove la piaga raggiungeva la profondità della carne, ogni movimento provocava un lamento soffocato. Queste povere creature ogni tanto ricevevano visita, fuori dalle mura, dove vivevano, di persone che portavano loro acqua pulita e cibo. Se uno di loro entra in Assisi, è schivato, non degnato di sguardi, ma insultato da ragazzacci che sfogano la loro cattiveria, fisicamente, su noi mendicanti, non lebbrosi. Possiamo solo portare pazienza. Dopo diversi anni, tornai ad Assisi, ma trovai la città diversa. Seppi della guerriglia degli assisani, del popolo contro la classe nobile e della fuga di questi ultimi a Perugia. E fu allora, che la rividi. Era proprio la donna che abitava accanto alla bottega di stoffe, mi riconobbe e mi salutò. Le chiesi della gravidanza di allora e lei dicendomi che era nato un maschio, mi espresse la sua più grande preoccupazione per lui, partito in battaglia con gli assisani e non più tornato da dieci mesi. Mi fermai ad Assisi e seppi che quella donna si chiamava Pica, moglie di Pietro Di Bernardone, commerciante di stoffe e prestasoldi. Questa parola mi arrivava alle orecchie come un pugno, ricordandomi il perché indosso questi stracci. La bottega, si vede che è ben avviata, tanta gente va e viene dalla porta principale, ma la mia attenzione si sposta sul retro della casa, dove una porticina vede entrare ed uscire gente meno nobile e ben vestita. Operai di Pietro e povera gente che chiede soldi, come feci io tanto tempo fa. Vorrei metterli in guardia, ma chi ascolta uno straccione? Oggi ho visto entrare Donna Pica nella Chiesa di San Giorgio. Entro anch’io, non sono un buon cristiano, ma sento di chiedere al Signore che suo figlio torni a casa sano e salvo. Passano alcuni giorni e Pietro è in partenza, in sella al cavallo e per le redini ne tiene un secondo, sellato e con delle coperte legate sopra. La bottega resta chiusa. Qualche giorno dopo, un gran trambusto accoglie il ritorno di Pietro Di Bernardone e di suo figlio Francesco, chino sul dorso del cavallo, con la barba ed i capelli lunghi, il volto scavato. “Bentornato Francesco! ” grida la gente. Di tanto in tanto, Donna Pica, salutandomi, si fermava a raccontarmi del figlio minore, Angelo, devoto al padre e sempre con lui in bottega e in giro per affari. Ma il volto della donna si incupiva quando provava a parlarmi di Francesco. È più caritatevole del dovuto, diceva la gente. Ma dopo qualche mese, eccolo di nuovo in sella al cavallo, pronto a partire per le Puglie, a seguito di un nobile, per una giusta causa, ridando gioia al padre, che in lui vedeva la speranza di prestigio per la sua famiglia, e di nuovi affari, al suo ritorno. Il figlio di Donna Pica e Pietro, è tornato presto, si è fermato a Spoleto per un malanno, ed è tornato a lavorare nella bottega del padre. Il paese non è grande e si dice ovunque che Francesco è tanto cambiato! Dicono che sta cercando qualcosa, al di là della collina. Anch’io l’ho visto un giorno, mentre cercavo fichi da mangiare, verso la pianura, dopo la collina. È entrato in una vecchia chiesa diroccata, custodita da un vecchio prete. Il tetto era crollato, sul pavimento pietre e calcinacci. Francesco si inginocchia e sta in silenzio; poi alzandosi va verso qualcosa, una tavola piena di polvere. La depone davanti all’altare, la pulisce e con una cordicella la erge sopra l’altare. Le mani di Francesco avevano fatto riaffiorare da quella tavola, il volto dipinto di Cristo. Il vecchio prete non c’è e il giovane piange aggrappato alla sua croce. Poco dopo spaventato, scappa. Un giorno Francesco andò a Foligno con un cavallo e tante stoffe, ma al suo ritorno, le stoffe non c’erano più e neppure il cavallo. Lui era a riparare il tetto della chiesetta di San Damiano. La voce tra la gente che quel ragazzo è proprio partito di testa, arriva fino al padre. Un corteo danzante attraversa la città e al centro c’è un uomo con vestiti logori, capelli e barba lunghi cammina riparandosi il volto dal fango che i ragazzi gli tirano addosso. “Sta arrivando Francesco” si sente gridare. Pietro esce di bottega, in malo modo trascina suo figlio a casa, sotto gli occhi terrorizzati di Donna Pica. Pietro porta Francesco nel ripostiglio e lo incatena. Pochi giorni dopo, Pietro parte con Angelo, ben vestiti e con cavalli carichi di stoffe, per nuovi affari. Donna Pica, una sera molto tardi, accompagna alla porta il figlio liberato, e lui si allontana lentamente verso la discesa di San Damiano. Al ritorno, Pietro non trova il figlio, ed è furioso, sa dove trovarlo e si incammina. Gli vieni incontro per la strada, proprio Francesco. “Puoi anche rinchiudermi, ma non cambierò la mia dedizione verso chi soffre e verso Dio!” Pietro gesticola, come se dicesse del figlio che non è a posto di testa, e grida “Ladro, i miei soldi! ”. Pietro guarda la gente che gli stava intorno come per cercare approvazione. “Vieni dal Vescovo con me, ladro!”. Raggiunsero a piedi il palazzo del Vescovo, non lontano dalla bottega di Pietro Da Bernardone. Le voci erano già arrivate a palazzo, prima dei due. Pietro a testa alta e Francesco, braccia a penzoloni e volto chino, attendono il vescovo nella grande sala delle udienze. La voce del vescovo rompe il brusio della sala e dopo che il prete chiede il silenzio, Pietro si fa avanti e chiede di parlare. “Mi ha rubato i soldi per darli ai lebbrosi! Mi ha venduto stoffe preziose e anche il cavallo! ”. “E tu cos’hai da dire?” chiede il Vescovo a Francesco. Il silenzio è pesante. Tutti gli occhi sono sul giovane che ora parla: “Voglio seguire la strada che Dio mi ha indicato”. Io Bartolomeo, intrufolandomi fra la gente, non sento bene ma i miei occhi vedono Francesco tirar fuori un sacco da sotto le vesti e darlo al padre, si toglie la cintura e i vestiti, rimane nudo. “Eccoti padre tutto quello che è tuo! Ora finalmente posso dire Padre nostro che sei nei cieli. Il vero Padre che voglio servire”. Pietro è sconvolto. Il Vescovo si alza, si avvicina a Francesco e lo avvolge nel suo mantello. In disparte c’è Donna Pica in lacrime, segue il marito allontanarsi dalla sala, furioso ed imbarazzato. Ad Assisi non si parla d’altro: come può un uomo ricco dare un calcio alle sue comodità e diventare povero per scelta? Io, Bartolomeo, sono povero per disgrazia, e come me, altri. Sono al primo gradino della scala sociale, il primo che si calpesta e di cui si può fare a meno. Francesco ha scelto di scendere questa scala per suo Padre celeste che nessuno ha mai visto. Il prete di San Damiano accetta volentieri l’aiuto di Francesco ed il mio, mi racconta che prima Pietro portava spesso Francesco in Francia per affari e così il ragazzo imparò il francese e sapeva di cantastorie, saltimbanchi e cavalieri. E poi, come a tutti i giovani, gli prese la fissa per le battaglie. Francesco riconosciuto nobile, fu fatto prigioniero e così si è salvato, merce di scambio per danaro agli aguzzini. Era nella prigione di Perugia, dove il vecchio prete andava a benedire i vivi e i morenti, dove d’inverno il freddo non riusciva ad entrare, ma d’estate il calore fa aumentare il tanfo, i topi, le pulci e gli scarafaggi. Oggi Francesco è tornato con tanti soldi, lo sguardo limpido, la voce decisa “Mi ha parlato e Lui vuole che questa chiesa sia bella! ” Lavorava dalla mattina alla sera a San Damiano. Ogni tanto si rifugiava in una grotta dietro la chiesa, a pregare, e spesso rifiutava il cibo perché preferiva continuare a pregare. Pregava e lavorava. L’ho visto chiedere l’elemosina, vestito con una tunica grezza, color terra, scalzo e senza borsa, ricevere del pane e distribuirlo a quelli più poveri di lui, che non possono aiutarsi da soli, i lebbrosi. Lavava loro le piaghe, sì perché andava spesso a trovarli, fuori le mura. La gente lo vede, conosce ogni sua mossa, l’hanno visto mendicare pane e pietre, aiutare i bisognosi; lo dicevano pazzo e ora non più. “Il Signore ti mostri il suo viso e ti dia Pace! ” dice alla gente con occhi di gioia. C’è una chiesa piccolissima giù lungo la piana, abbandonata, chiamata Santa Maria degli Angeli, e Francesco mi chiede di aiutarlo a sistemarla. È così piccola che la chiamano la Porziuncola, si dice che sia la preferita degli Angeli, che vengono a rendere omaggio alla Mamma di Gesù. Francesco vuole rimetterla a nuovo, a forza di muovere pietre le sue mani hanno calli ed il suo fisico si è irrobustito. Ora lì la liturgia c’è tutti i giorni. Francesco predica alla gente, con umiltà e dolcezza “La Pace sia con voi! , non parla di catastrofi, il suo sorriso coinvolge chi si ferma ad ascoltare. Un giorno un suo vecchio amico venne a trovarlo, barba e capelli ben curati, mantello ed abiti lussuosi, la gente lo riconobbe” È Bernardo Da Quintavalle! “, gridavano. Ora Bernardo, vestito come i suoi nuovi fratelli, tunica color terra, funicella ai fianchi, ha pietre in mano e mai stanco aiuta Francesco alla Porziuncola. Francesco, con la benedizione del Vescovo, predica il perdono e la conversione. La vita nuova di Francesco, dedicata al servizio e alla preghiera, contagia altre persone, li contai, erano dodici, sì, come gli apostoli di Gesù.
“Chiedete e vi sarà dato, non temete se vi chiuderanno la porta in faccia, se vi daranno serpi o topi morti, non inquietatevi perché il Padre che è nei cieli ci aiuterà. Pensate ai più bisognosi che non possono chiedere, dobbiamo farlo per loro, si deve aver vergogna di rubare e noi non lo facciamo”. Le mani di Francesco prendono uno ad uno i suoi compagni paurosi e dubbiosi. Ora Francesco e i suoi sono a Roma dal Papa per chiedergli il permesso di vivere la loro regola di vita nuova. Tutto ciò che hanno è in prestito, il nome, la tonaca, il loro stesso corpo. E il Papa ha concesso loro di predicare. Ora anche io sono con loro, in ginocchio, le risposte alle invocazioni mi escono spontanee dalla bocca e prego, prego Dio! Francesco vuole andare a Greccio, un paesino arroccato a qualche giorno di cammino da Assisi, per celebrare il Santo Natale. Partiamo con la terra ghiacciata sotto ai piedi e la neve dal cielo; alcuni di noi hanno una mantella calda sulle spalle, un asinello è carico di coperte e Francesco intona un canto con voce limpida. Attraversiamo un borgo, tre case in tutto, e siamo accolti in una stalla, calda, tra le bestie, è sera e per noi una tavola con latte, pane e vino. Somiglia ad un altare quella tavola, Francesco commosso, si fa il segno della croce e tutti dopo di lui, prende il pane e lo spezza, pronuncia brevi parole, distribuisce un pezzetto a tutti, e poi il vino. Eravamo seduti per terra uno vicino all’altro. Durante la cena Francesco spiega ad un uomo che vuole andare a Greccio per Natale per celebrare la nascita del Cristo. I suoi occhi luminosi, i piedi in movimento, quasi danzanti dalla gioia. L’indomani, con l’asinello carico di noci e vino, ci incamminiamo, la carovana ad ogni borgo aumenta di numero di persone. Domani è Natale! Ecco Greccio! I fuocherelli lungo le vie annunciano la sera, un uomo si avvicina a Francesco e gli indica un luogo poco distante. Comincia a nevicare e Francesco, abbassandosi il cappuccio, prosegue con passo sicuro, indicando di seguirlo, si forma una processione, con lanterne, semplici candele. Intona un canto alzando le mani al cielo e tutti lo seguono e poi si interrompe e si sente solo il canto del fuoco lì acceso. Il piccolo frate indica uno spazio dove qualcuno ha costruito una capanna di paglia e assi. La terra come pavimento e sulla paglia un bue e un asinello seduti, rivolti verso una mangiatoia che accoglie un fagotto. Un uomo anziano ed una giovane donna accanto alla mangiatoia. Uno inizia a cantare e da uno a due voci, si forma un coro. Francesco si inginocchia con le mani sulla paglia, le guance piene di lacrime di gioia, le stesse di tutti noi, sì, anche del mio volto! Finalmente piango di gioia, sono contento di essere qui. Un frate celebra la Santa Messa e Francesco intona il Vangelo, con voce tremante come alla sua prima messa. Nell’omelia prende in mano il fagotto e lo culla come se fosse un bambino, e ne spiega la nascita. La neve cade lenta, il fuoco illumina i visi assorti. In quella capanna lunghe ombre ballano tra le luci, in un intreccio di chiaro scuro. Ognuno di noi porta con sè Gesù.
t. r