Una storia da ascoltare… un capo branco di valore

Con il finire dell’estate calda, mi aggrego ai frati, per andare ad Assisi. Di Francesco non c’è traccia, forse è a Perugia. La città è diversa, sembra più tranquilla di un tempo. Ci sono dei cantieri aperti, con case in costruzione. Le strade di ciottoli però, ospitano sempre i bambini che corrono vocianti nei loro giochi. Nessuno bada a me, nessuno mi insulta e nessun sasso viene lanciato.
Ai bordi delle strade i mendicanti sono seduti con la loro ciotola in mano; è mattina e qualcuno si inchina a fare l’elemosina, senza nascondersi. Cosa ha causato questo cambiamento?
Da lontano vedo una coppia di frati nel saio color terra, con le braccia cariche di sacchi e coperte. Stanno scendendo per la strada che porta al lebbrosario. Dal colle dove si trova la città, si vede la piana sottostante, illuminata dal sole, come un grande quadro. Guardo le pendici della città, i palazzi dei nobili in alto, le baracche degli ultimi in basso. Tra questi due livelli, un’incessante attività di carità che avvicina queste realtà distanti, facendo in modo che entrambe trovino giovamento: gli uni allo spirito, nel donare, gli altri al corpo, nel ricevere. Quello che stupisce è vedere come la malattia possa cambiare una persona. Ricordo che tempo fa, ho conosciuto un tale che, da sano, sfuggiva noi ultimi, ma che una volta colpito leggermente dalle piaghe, ha cambiato totalmente modo di vita. Aveva, se non ricordo male, una bottega dove rilegava i libri, cuciva i fogli e le copertine, riparava vecchi tomi che provenivano anche da biblioteche lontane. L’ho visto io stesso, sottrarre tempo alla bottega, per venire qui a dare una mano. Chissà che fine avrà fatto!
Le condizioni del lebbrosario erano leggermente migliorate, non c’erano più capanne fatiscenti di stracci e paglia, ma piccole baracche di legno costruite dai frati che accudivano i malati. L’olezzo era lo stesso, ma all’occhio mi balzò subito la maggiore presenza di gente comune. Gente del paese che portava vestiti puliti, bruciava le bende sporche, portava acqua e pane. Passo lentamente nel piccolo villaggio dove la tolleranza è la massima espressione di solidarietà. Qui non ci si viene per caso, se sei malato lo cerchi per trovare sollievo e se non lo sei, lo cerchi per dare conforto. Nei giorni seguenti gironzolavo tra le piane: a mezzo colle c’è un luogo dove alcuni frati si ritirano in preghiera, anche Francesco.
Tra il bosco di lecci e querce, ci sono delle grotte che ospitano i frati, sulla nuda terra. L’eremo delle carceri, come viene chiamato, dista da Assisi, pochi chilometri, su un sentiero immerso nel verde. Incamminarsi per quella strada avvolta nella quiete, interrotta solo dal canto degli uccelli, mi dice che l’impronta della Sua mano, è presente ovunque. Ogni tanto si incontrano frati che cantando, scendono o salgono, salutando chiunque incontrino, gioiosamente. Fu uno di questi, fermo a prendere fiato, che mi raccontò di Francesco.
Da tempo la sua salute è peggiorata, anche se lui continua a dire di stare bene e di non preoccuparsi. Da tempo si è messo da parte, è sempre lui il riferimento per la marea di fratelli sparsi nel mondo, ma non è più lui a capo del movimento dei frati. Lo ha riferito in una riunione, quella che chiamano il capitolo, davanti ai suoi compagni.
Per la piana ed in città, era un via vai di gente vestita come lui. Ricordo di essermi seduto fuori dalla porta a guardare la gente che passava, come facevo da un po’, da che le gambe fanno fatica a reggermi e la schiena scricchiola. Un vecchio prete, che conosco da tempo, da quando giravo ad aggiustare sedie e tavolini per vivere, si ferma e parliamo. Anche lui ha sentito di Francesco. Sa che non sta bene. Chissà come, quando si tira in ballo Francesco, qualche aneddoto viene rispolverato: tempo fa ero a Gubbio, un paese più a nord di Assisi. Sapevo che in quel periodo c’era il pericolo di imbattersi in branchi di lupi affamati. Avevano già decimato polli e pecore dei villaggi più isolati e a volte, purtroppo qualche pastore sprovveduto, ci ha lasciato la pelle. La notizia dilagava tra i pastori e tra la gente dei borghi lontani dalla città.
Francesco era di ritorno da non so quale strada, fatto sta che, trovandosi a Gubbio, venne informato dei lupi. Un giorno gli ululati si fecero così vicino alla città, che la gente spaventata si ritirava nelle case. Il paese era deserto, si sentivano in lontananza i guaiti inquietanti di quegli animali. Ma quello che mi sconvolse fu la serenità di Francesco, quando chiese al curato di dargli da mangiare per quelle povere creature affamate. Il povero prete non seppe cosa dire e di tutta risposta diede a Francesco del pane, un pezzo di salame e una gallina appena spennata. Sarebbe stato il suo sostentamento per una settimana, ma aveva imparato, come tutti, a non fare domande a quell’uomo di Dio.
Solo, nel paese deserto, con il suo fagotto di cibo, Francesco si incamminava per le vie, seguendo quei “guaiti” lontani. Le notizie volano come il vento e lungo la strada qualcuno dona a Francesco altro cibo per i lupi. La fiducia in quell’uomo è immensa. Dietro di lui, a distanza di sicurezza, si va formando una piccola processione di uomini e donne in preghiera. Lo so perché ero io a recitare il Padre nostro a mezza voce, poi seguito da tutti gli altri. Timore e speranza di vedere qualcosa di insolito, da poter raccontare.
Nel Vangelo si legge “Andrete come agnelli in mezzo ai lupi” Era quello che stava facendo un uomo solo. Fuori dal paese, dopo le ultime case, ci siamo fermati, colpevoli di vigliaccheria, e lui, solo, camminava verso i lupi. Fuori dal bosco Francesco si inginocchia, non butta il cibo lontano, ma lo tiene vicino a sé. Le sue braccia alzate invitano i lupi a venire da lui. E qui avvenne tutto. Dai cespugli qualcosa si muoveva, respiri affannati di bestie che si avvicinavano ed annusavano l’aria carica di odori di cibo. Un solo lupo, forse il capo branco, si stava dirigendo verso il cibo e verso Francesco. Fra le ombre della macchia del bosco, gli occhi affamati del branco. Di solito il capo branco, per manifestare il suo valore, tiene la coda ritta, ma, a tre metri da Francesco, la sua testa era china come la coda. Francesco lo chiama e questo avanza fino a farsi accarezzare. Francesco gli parla e il lupo si lascia toccare, leccando le mani dell’uomo di Dio. Ci fu un attimo di sgomento quando il lupo appoggiò le zampe anteriori alla spalla di Francesco, toccando con la sua, la testa di Francesco. Lui abbracciò il corpo del lupo e poi lo fece scivolare a terra. Mentre si alzava, il lupo rimase a guardarlo negli occhi. Francesco sorrise, un’ultima carezza tra le orecchie e sotto il mento, poi si voltò per tornare sulla sua strada, lasciandosi alle spalle due occhi amici. Francesco vicino a tutti noi, si voltò e salutò tutti i lupi usciti dal bosco, vicino al loro capo: “La pace sia con voi, fratelli lupi!”.
A quel punto tutti i lupi presero il cibo per portarlo via nel bosco, dove tornavano, tranne uno. I suoi occhi guardavano solo Francesco e lui lo benedì con un grande segno di croce. La belva emise tre ululati e andò verso il bosco, non prima di dare un ultimo sguardo a Francesco, muovendo leggermente la coda. Poi sparì. Da quel giorno i lupi non si fecero più vedere nei pressi della città e dei villaggi vicini. Li si poteva sentire nei boschi; ogni tanto qualcuno lasciava tra gli alberi, galline spennate o ossa di maiale con un poco di polpa, a ringraziamento per quel “patto” fatto da Francesco.
Il prete si ferma di raccontare: sembra una favola, ma so che questo è tutto vero e da aggiungere ad altri fatti di ordinaria originalità, dei quali la strada di Francesco è colma.
Affascinata e piena di gioia, con gratitudine ringrazio l’autore di questi racconti, Fabio Bergamaschi.
Alla prossima lettura!
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