Prendersi la colpa: il castorino che voleva essere capo

«Erica, lo sai? Ho deciso che da grande voglio fare il capo scout!»
È il mio castorino preferito a parlare. Mi guarda dal basso in alto, con un larghissimo sorriso sdentato non proprio pronto a rosicchiare.
Lo so, lo so! Non si dovrebbe avere un castorino preferito, ma se può essere un’attenuante, confesso che in effetti ho moltissimi castorini preferiti: praticamente tutti quelli che ho incontrato.
Ad ogni modo, non faccio in tempo ad aprire bocca che lui è già scomparso. Chiaramente stava parlando a decisione già presa, dirlo ad alta voce era puramente a titolo informativo.
Il giorno dopo, si ripresenta con un’espressione più seria: «Erica, sai, ho deciso che non voglio più fare il capo scout.»
Sono colta alla sprovvista, di nuovo. Ogni tanto dimentico che i castorini sono bestioline complicate.
Mi guarda dal basso in alto e questa volta si aspetta una risposta.
«E come mai?» chiedo.
«Beh, perché se un bambino va a giocare nel bosco e si perde o si rompe la testa è tutta colpa tua.»
La sensazione è quella di trovarmi di fronte alla sintesi di un sofisticato studio di fattibilità, con una chiara definizione dei pro e dei contro. Pare che a questa storia del capo scout abbia pensato davvero per bene, così cerco di ribattere in modo altrettanto intelligente, ma mi trovo subito in difficoltà.
Parlare con i castorini è estremamente bello e al contempo tremendamente complicato, perché ti costringono a quella linearità che arriva direttamente all’essenza delle cose, districandoti dal groviglio dei giri di parole tipici dei discorsi eruditi, nei quali è facile perdere il filo. Tutto questo senza però scadere nella banalità o camuffarsi dietro a fuorvianti diminutivi e vezzeggiativi. Vogliono risposte vere, risposte semplici. Veloci, anche. Quelli più tosti ti intrappolano con una lunghissima catena di rapporti causa-effetto, che procede indefinitamente attraverso una raffica di “perché” che sembrano dover portare alla comprensione dell’origine del mondo o alle prove dell’esistenza di Dio.
Come dei piccoli Socrate, ti interrogano spronandoti a snocciolare fino all’osso qualsivoglia argomento, fino a farti concludere da te, che in effetti non sai proprio niente di niente.
Ci provo:
«Sì, è vero, ma se i capi avessero paura di prendersi le colpe non potremmo giocare insieme, né fare i pernotti, né i campi… e poi i castorini lo sanno che non si devono mettere nei pericoli. Al massimo ti può capitare che ti sbucci un ginocchio.»
«Io me lo sono sbucciato il ginocchio!»
Mi mostra con una punta di fierezza le pellicine miste a sangue coagulato, quasi fossero ferite di guerra.
«Lo so, ma va bene ogni tanto sbucciarsi le ginocchia.»
Ci pensa su, non l’ho convinto.
«Va beh, tu fa’ come vuoi!» conclude pacifico. Mi abbraccia frettoloso e se ne va con il solito sorriso sdentato. È così poco, ma anche ripensandoci adesso non ci trovo nulla da aggiungere.
Erica