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Abitazioni arboricole

Ciao, sono Giacomo lupetto del branco Tiko… per prendere la specialità di amico della natura il mio capo Chil mi ha chiesto di fare un articolo parlando degli alberi.
Col mio branco proprio questa domenica siamo andati in un bosco e ho visto un albero sradicato così ho potuto osservare le sue radici.
Era un albero molto molto grande ed io ho potuto salirci fino alla cima… in orizzontale è più facile!
Secondo me gli alberi sono come i condomini, perché possono ospitare molti animali: tra le loro radici molti piccoli animali scavano le loro tane, nei buchi dei tronchi trovano riparo scoiattoli e picchi, infine sui loro rami gli uccelli costruiscono i loro nidi.
Un giorno mi è capitato di vedere un nido molto particolare.
L’uccello che l’aveva costruito, oltre ai rami aveva utilizzato un sacchetto di plastica e ho pensato: “Che bravo, anche gli animali riciclano, ma in modo diverso da noi!”.
Gli alberi non sono utili solo per gli animali ma anche per gli uomini.
Ci danno ossigeno, i loro frutti e con le loro foglie ci fanno ombra d’estate.
Tutti noi dobbiamo averne cura e rispettarli perché sono molto preziosi.
-Prunesti Giacomo

 

Perdersi mentre si cerca qualcosa

Ciao a tutti, io sono Leonardo, un lupetto dei Tikonderoga. Oggi voglio raccontarvi l’attività del 14 Gennaio. Ci siamo radunati davanti ad una Chiesa alle 9:45 e siamo andati a Messa. Una volta terminata siamo andati nell’oratorio dietro la stessa e abbiamo giocato a calcio e mangiato. Poi ci siamo incamminati per andare in un bosco. Arrivati a destinazione abbiamo trovato un albero caduto e ci siamo arrampicati sopra. Poi abbiamo fatto un gioco in cui c’erano delle coppie: un maschio e una femmina. Uno dei due si bendava e l’altro lo doveva portare nel luogo in cui, secondo lui, si trovava Gesù. Trovato il posto si faceva cambio. Io e la mia compagna abbiamo quasi rischiato di perderci perché stavamo seguendo una coppia che stava andando in un luogo sconosciuto dove c’era un grandissimo prato con una strada che non sapevamo dove portava. Quindi, per curiosità, l’abbiamo seguita ma poco dopo c’è stata la chiamata e siamo tornati indietro. Dopo abbiamo giocato a “sardina” (per chi non sa cos’è, è un gioco in cui uno si nasconde e tutti gli altri lo cercano. Se si trova la persona nascosta, bisogna stare con lei senza dirlo a nessuno). Ma non eravamo noi a nasconderci bensì il nostro Bagheera. Dopo un po’ di tempo l’abbiamo trovato quindi visto che non c’era più tempo siamo ritornati in piazza e abbiamo finito l’attività.
Bella giornata!
-Leonardo Branda

La mia promessa

Cari lettori, sono Giorgia dei lupi del branco Albero del Dhack.
Vi voglio raccontare del giorno in cui ho fatto la Promessa scout. Sono stata felicissima, non vedevo l’ora. Con il mio capo sestiglia Laila sono andata davanti ai capi gruppo: Akela, Bagheera e Kaa ed ho pronunciato la promessa facendo il saluto scout poi Akela mi ha chiesto la Legge del branco e io ho pronunciato senza paura il motto (del mio meglio). Dopodiché Akela mi ha dato il distintivo della promessa da attaccare sul taschino destro della camicia e il distintivo da attaccare sul cappellino.
Bagheera mi ha poi messo al collo il fazzolettone internazionale scout (Busto 3) e sono andata da Haty che mi ha dato il distintivo internazionale sesso femminile. Alla fine ho detto buona caccia al branco e ciao a chi non aveva ancora pronunciato la promessa.

L’impatto di una buona azione

Ciao, sono Pablo e sono un lupetto del branco Albero del Dhak.
Quest’anno è arrivata una nuova bambina al mio gruppo di catechismo.
Qualche giorno prima la catechista ci aveva detto che aveva dei problemi, perciò ci aveva chiesto di essere gentili con lei.
Nonostante questo il giorno del suo arrivo nessuno le si avvicinò.
A quel punto io pensai a come si sentiva lei, perciò mi alzai e andai a sedermi vicino a lei: subito vidi che diventò più sorridente!
-Pablo Santoruvo

Impact B.-P. day 2018

03

Eccoci di nuovo qui, tutti insieme come sempre! Già, perché il Tuttoscout porta le firme di tutti noi, di ogni età e ruolo all’interno del Bustotre. Questo numero esce in occasione di una festa molto importante per gli scout di tutto il mondo: la Giornata del Pensiero. In questa giornata, in cui si ricorda la nascita di Baden-Powell, da anni è dedicata a temi importanti su cui tutti gli scout del mondo si spendono e si mettono alla prova. Il tema di quest’anno è “Impact”, l’impatto, inteso come l’impatto che noi scout operiamo su ciò che ci circonda, luoghi cose e persone.
Ma questo, si sa, lo raccontiamo in ogni numero attraverso le vostre parole e i vostri ricordi. Per questo abbiamo voluto andare ad ascoltare anche qualcun altro al di fuori del nostro Gruppo che opera per avere un buon “impatto”.
Vi vedo curiosi, quindi andate subito a vedere!

Bello da morire!

È un modo di dire, certo. Eppure mi colpisce perché stabilisce una correlazione diretta tra la vita e la bellezza: è come dire che la vita è in cerca di una bellezza, e che quando la trova in qualche modo si compie, si completa. Al punto che uno è disposto a dare tutto per quella bellezza.
C’è da dire, però, che quando vediamo che qualcuno “spende” la sua vita per qualcosa, nella nostra testa risuona una vocina che ci dice: ma ne vale davvero la pena?
E come uscire da questo dubbio? Come essere certi che ne valga la pena?
Ci vorrebbe una correlazione, quasi una parità: io do la vita per qualcosa o per qualcuno a patto che anche lui la dia per me…
Non so se avete già capito dove voglio arrivare… penso di sì, per cui desidero soltanto augurarvi un buon Natale:
Che possiate vedere nel Dio-con-noi
la risposta alla grande domanda
che portiamo nel cuore!
Don Matteo

Le avventure di Oo

Ciao! Cari ragazzi, le avventure di Oo, la tartaruga della Giungla Indiana, hanno visto il suo racconto di arrivederci, nello scorso numero di “Tuttoscout”. Che ne dite se un mio amico vi racconta la sua storia? Spegniamo il chiasso della giungla, delle nostre città, ed insieme avviciniamoci a questa nuova storia, vecchia di secoli, in silenzio, la storia di una città, Assisi, dove tanto tempo fa, tutti si conoscevano e si riconosceva un forestiero da lontano, come si riconoscevano i pazzi, i lebbrosi e i mendicanti…
È un pomeriggio tranquillo, il sole rimbalza tra le pietre delle vie, lungo le strade corrono bambini, giocano ai cavalieri, con le loro spade di legno. Tutti loro conoscono le storie di cavalieri, nessuno conosce le storie dei mendicanti: chi sono, come si chiamano, a nessuno importa nulla di loro. Ogni tanto una mano si abbassa verso quella ciotola che sta ai loro piedi: chi dà spiccioli, pane e chi, per divertirsi, mette sassi o scarafaggi. E i più sfortunati sono i lebbrosi, costretti a vivere fuori dalle mura della città, lontano dal pubblico passaggio, in capanne di legno o grotte, ammassati lungo un rigagnolo di acqua sporca, che raccoglie i loro escrementi. Qui la sofferenza diventa un’abitudine e il silenzio è il sollievo eterno per molti di loro. Qui non si ha paura del contagio e chi aiuta sa che l’altro sta peggio di lui! Mi chiamo Bartolomeo e non sono un lebbroso, almeno non per adesso e non conto di diventarlo. Un tempo avevo amici e parenti, una moglie ed un lavoro a Spoleto, costruivo mobili in legno, come mio padre. Ma i miei clienti mi pagavano quando potevano e magari con una gallina o delle uova o con i loro sorrisi ed una grande stretta di mano. Ero contento così, dovevo però pagare i materiali, le tasse e sostenere me e mia moglie, non troppo contenta di vivere così semplicemente. Lei voleva vestire come le mogli degli altri artigiani, voleva e voleva e voleva… credo, un altro marito! Ho cominciato a rifiutare alcuni lavori, finchè un giorno, ed è stata la mia rovina, ho accettato, sotto gentile consiglio di mia moglie, un grosso lavoro per un nobile, vecchio conoscente di mio padre, che mi commissionò un sontuoso scrittoio: intarsiato, di vario legname, con cassetti e cassettini e due sedie di paglia e legno con tessuto. Feci un grosso debito per anticipare il legname da lavorare, con lo strozzino venditore di vino della bottega vicino la mia, e avrei dovuto restituire a mastro Cosimo tutta la cifra più il quaranta percento, entro un anno. Dovevo solo lavorare di più per la felicità di mia moglie che così poteva comperarsi bei vestiti. Gli altri lavori non bastavano a coprire gli interessi chiesti da mastro Cosimo e neppure il nobile signore mi pagò per intero il lavoro dello scrittoio. Dopo un anno, chiesi un nuovo prestito e, non riuscendo a saldare tutti i miei debiti, alla scadenza, mi tolsero ogni cosa. E ora mi ritrovo ad Assisi, faccio il mendicante e sono contento. Mia moglie… ora commercia in vini ed è felice! Sono andato via da Spoleto per la vergogna, ho fatto fagotto con pochi vestiti e qualche arnese del mio mestiere, ho scaldato le mie gambe e sono arrivato a piedi, fino a qui. Riparo sedie, ceste e piccoli oggetti di legno, non chiedo soldi, ne ho quasi paura, mi danno da mangiare o mi regalano una camicia, se va bene un paio di scarpe, altri mi offrono da dormire nelle loro stalle, fra asini e pecore. Ho ricevuto anche calci, e un ragazzetto, un giorno, mi ha lanciato un sasso, rompendomi il naso. Ho pianto quel giorno: che diritto mai poteva avere, per farmi del male? Avevo paura delle malattie che giravano fra i mendicanti e delle guardie, così mi spostavo fra le vie di Assisi. Preferivo un posto vicino al Tempio di Minerva o anche a San Rufino, il Duomo. Molta gente passava, ma una sola mi è rimasta nel cuore. Se il marito era forestiero per affari, lei di sera usciva di casa, con una donna sua accompagnatrice, usciva a medicare ferite ai come me, causate dai maltrattamenti e dalla vita all’aperto, giorno e notte. Quando toccò a me esser medicato, fui turbato da tanta delicatezza, usata per evitarmi altro dolore. Avrà avuto la mia età e, dalle sue vesti, si intravedeva un leggero gonfiore, segno di una nuova vita felicemente manifesta. Le feci i miei migliori auguri per la nascita di suo figlio ed, al suo semplice grazie, osai chiederle, se avesse bisogno di riparare sedie. Mi chiese il mio nome e dicendomi che si sarebbe ricordata di me, tornò a casa. Con il passare dei giorni, la ferita al naso guarì, l’osso mi faceva ancora male, però riuscivo a respirare meglio. Per qualche tempo lasciai Assisi, alla ricerca di nuovi lavori. Non ricordavo il tempo dell’ultimo bagno caldo con del sapone, la nozione del tempo si perde se non si hanno riferimenti precisi. Ricordo d’esser scappato da Spoleto, a primavera iniziata e lungo le strade avvenne il mio incontro con gente come me. Camminavano, portando con dolore le loro piaghe, coperti solo di stracci, dove la piaga raggiungeva la profondità della carne, ogni movimento provocava un lamento soffocato. Queste povere creature ogni tanto ricevevano visita, fuori dalle mura, dove vivevano, di persone che portavano loro acqua pulita e cibo. Se uno di loro entra in Assisi, è schivato, non degnato di sguardi, ma insultato da ragazzacci che sfogano la loro cattiveria, fisicamente, su noi mendicanti, non lebbrosi. Possiamo solo portare pazienza. Dopo diversi anni, tornai ad Assisi, ma trovai la città diversa. Seppi della guerriglia degli assisani, del popolo contro la classe nobile e della fuga di questi ultimi a Perugia. E fu allora, che la rividi. Era proprio la donna che abitava accanto alla bottega di stoffe, mi riconobbe e mi salutò. Le chiesi della gravidanza di allora e lei dicendomi che era nato un maschio, mi espresse la sua più grande preoccupazione per lui, partito in battaglia con gli assisani e non più tornato da dieci mesi. Mi fermai ad Assisi e seppi che quella donna si chiamava Pica, moglie di Pietro Di Bernardone, commerciante di stoffe e prestasoldi. Questa parola mi arrivava alle orecchie come un pugno, ricordandomi il perché indosso questi stracci. La bottega, si vede che è ben avviata, tanta gente va e viene dalla porta principale, ma la mia attenzione si sposta sul retro della casa, dove una porticina vede entrare ed uscire gente meno nobile e ben vestita. Operai di Pietro e povera gente che chiede soldi, come feci io tanto tempo fa. Vorrei metterli in guardia, ma chi ascolta uno straccione? Oggi ho visto entrare Donna Pica nella Chiesa di San Giorgio. Entro anch’io, non sono un buon cristiano, ma sento di chiedere al Signore che suo figlio torni a casa sano e salvo. Passano alcuni giorni e Pietro è in partenza, in sella al cavallo e per le redini ne tiene un secondo, sellato e con delle coperte legate sopra. La bottega resta chiusa. Qualche giorno dopo, un gran trambusto accoglie il ritorno di Pietro Di Bernardone e di suo figlio Francesco, chino sul dorso del cavallo, con la barba ed i capelli lunghi, il volto scavato. “Bentornato Francesco! ” grida la gente. Di tanto in tanto, Donna Pica, salutandomi, si fermava a raccontarmi del figlio minore, Angelo, devoto al padre e sempre con lui in bottega e in giro per affari. Ma il volto della donna si incupiva quando provava a parlarmi di Francesco. È più caritatevole del dovuto, diceva la gente. Ma dopo qualche mese, eccolo di nuovo in sella al cavallo, pronto a partire per le Puglie, a seguito di un nobile, per una giusta causa, ridando gioia al padre, che in lui vedeva la speranza di prestigio per la sua famiglia, e di nuovi affari, al suo ritorno. Il figlio di Donna Pica e Pietro, è tornato presto, si è fermato a Spoleto per un malanno, ed è tornato a lavorare nella bottega del padre. Il paese non è grande e si dice ovunque che Francesco è tanto cambiato! Dicono che sta cercando qualcosa, al di là della collina. Anch’io l’ho visto un giorno, mentre cercavo fichi da mangiare, verso la pianura, dopo la collina. È entrato in una vecchia chiesa diroccata, custodita da un vecchio prete. Il tetto era crollato, sul pavimento pietre e calcinacci. Francesco si inginocchia e sta in silenzio; poi alzandosi va verso qualcosa, una tavola piena di polvere. La depone davanti all’altare, la pulisce e con una cordicella la erge sopra l’altare. Le mani di Francesco avevano fatto riaffiorare da quella tavola, il volto dipinto di Cristo. Il vecchio prete non c’è e il giovane piange aggrappato alla sua croce. Poco dopo spaventato, scappa. Un giorno Francesco andò a Foligno con un cavallo e tante stoffe, ma al suo ritorno, le stoffe non c’erano più e neppure il cavallo. Lui era a riparare il tetto della chiesetta di San Damiano. La voce tra la gente che quel ragazzo è proprio partito di testa, arriva fino al padre. Un corteo danzante attraversa la città e al centro c’è un uomo con vestiti logori, capelli e barba lunghi cammina riparandosi il volto dal fango che i ragazzi gli tirano addosso. “Sta arrivando Francesco” si sente gridare. Pietro esce di bottega, in malo modo trascina suo figlio a casa, sotto gli occhi terrorizzati di Donna Pica. Pietro porta Francesco nel ripostiglio e lo incatena. Pochi giorni dopo, Pietro parte con Angelo, ben vestiti e con cavalli carichi di stoffe, per nuovi affari. Donna Pica, una sera molto tardi, accompagna alla porta il figlio liberato, e lui si allontana lentamente verso la discesa di San Damiano. Al ritorno, Pietro non trova il figlio, ed è furioso, sa dove trovarlo e si incammina. Gli vieni incontro per la strada, proprio Francesco. “Puoi anche rinchiudermi, ma non cambierò la mia dedizione verso chi soffre e verso Dio!” Pietro gesticola, come se dicesse del figlio che non è a posto di testa, e grida “Ladro, i miei soldi! ”. Pietro guarda la gente che gli stava intorno come per cercare approvazione. “Vieni dal Vescovo con me, ladro!”. Raggiunsero a piedi il palazzo del Vescovo, non lontano dalla bottega di Pietro Da Bernardone. Le voci erano già arrivate a palazzo, prima dei due. Pietro a testa alta e Francesco, braccia a penzoloni e volto chino, attendono il vescovo nella grande sala delle udienze. La voce del vescovo rompe il brusio della sala e dopo che il prete chiede il silenzio, Pietro si fa avanti e chiede di parlare. “Mi ha rubato i soldi per darli ai lebbrosi! Mi ha venduto stoffe preziose e anche il cavallo! ”. “E tu cos’hai da dire?” chiede il Vescovo a Francesco. Il silenzio è pesante. Tutti gli occhi sono sul giovane che ora parla: “Voglio seguire la strada che Dio mi ha indicato”. Io Bartolomeo, intrufolandomi fra la gente, non sento bene ma i miei occhi vedono Francesco tirar fuori un sacco da sotto le vesti e darlo al padre, si toglie la cintura e i vestiti, rimane nudo. “Eccoti padre tutto quello che è tuo! Ora finalmente posso dire Padre nostro che sei nei cieli. Il vero Padre che voglio servire”. Pietro è sconvolto. Il Vescovo si alza, si avvicina a Francesco e lo avvolge nel suo mantello. In disparte c’è Donna Pica in lacrime, segue il marito allontanarsi dalla sala, furioso ed imbarazzato. Ad Assisi non si parla d’altro: come può un uomo ricco dare un calcio alle sue comodità e diventare povero per scelta? Io, Bartolomeo, sono povero per disgrazia, e come me, altri. Sono al primo gradino della scala sociale, il primo che si calpesta e di cui si può fare a meno. Francesco ha scelto di scendere questa scala per suo Padre celeste che nessuno ha mai visto. Il prete di San Damiano accetta volentieri l’aiuto di Francesco ed il mio, mi racconta che prima Pietro portava spesso Francesco in Francia per affari e così il ragazzo imparò il francese e sapeva di cantastorie, saltimbanchi e cavalieri. E poi, come a tutti i giovani, gli prese la fissa per le battaglie. Francesco riconosciuto nobile, fu fatto prigioniero e così si è salvato, merce di scambio per danaro agli aguzzini. Era nella prigione di Perugia, dove il vecchio prete andava a benedire i vivi e i morenti, dove d’inverno il freddo non riusciva ad entrare, ma d’estate il calore fa aumentare il tanfo, i topi, le pulci e gli scarafaggi. Oggi Francesco è tornato con tanti soldi, lo sguardo limpido, la voce decisa “Mi ha parlato e Lui vuole che questa chiesa sia bella! ” Lavorava dalla mattina alla sera a San Damiano. Ogni tanto si rifugiava in una grotta dietro la chiesa, a pregare, e spesso rifiutava il cibo perché preferiva continuare a pregare. Pregava e lavorava. L’ho visto chiedere l’elemosina, vestito con una tunica grezza, color terra, scalzo e senza borsa, ricevere del pane e distribuirlo a quelli più poveri di lui, che non possono aiutarsi da soli, i lebbrosi. Lavava loro le piaghe, sì perché andava spesso a trovarli, fuori le mura. La gente lo vede, conosce ogni sua mossa, l’hanno visto mendicare pane e pietre, aiutare i bisognosi; lo dicevano pazzo e ora non più. “Il Signore ti mostri il suo viso e ti dia Pace! ” dice alla gente con occhi di gioia. C’è una chiesa piccolissima giù lungo la piana, abbandonata, chiamata Santa Maria degli Angeli, e Francesco mi chiede di aiutarlo a sistemarla. È così piccola che la chiamano la Porziuncola, si dice che sia la preferita degli Angeli, che vengono a rendere omaggio alla Mamma di Gesù. Francesco vuole rimetterla a nuovo, a forza di muovere pietre le sue mani hanno calli ed il suo fisico si è irrobustito. Ora lì la liturgia c’è tutti i giorni. Francesco predica alla gente, con umiltà e dolcezza “La Pace sia con voi! , non parla di catastrofi, il suo sorriso coinvolge chi si ferma ad ascoltare. Un giorno un suo vecchio amico venne a trovarlo, barba e capelli ben curati, mantello ed abiti lussuosi, la gente lo riconobbe” È Bernardo Da Quintavalle! “, gridavano. Ora Bernardo, vestito come i suoi nuovi fratelli, tunica color terra, funicella ai fianchi, ha pietre in mano e mai stanco aiuta Francesco alla Porziuncola. Francesco, con la benedizione del Vescovo, predica il perdono e la conversione. La vita nuova di Francesco, dedicata al servizio e alla preghiera, contagia altre persone, li contai, erano dodici, sì, come gli apostoli di Gesù.
“Chiedete e vi sarà dato, non temete se vi chiuderanno la porta in faccia, se vi daranno serpi o topi morti, non inquietatevi perché il Padre che è nei cieli ci aiuterà. Pensate ai più bisognosi che non possono chiedere, dobbiamo farlo per loro, si deve aver vergogna di rubare e noi non lo facciamo”. Le mani di Francesco prendono uno ad uno i suoi compagni paurosi e dubbiosi. Ora Francesco e i suoi sono a Roma dal Papa per chiedergli il permesso di vivere la loro regola di vita nuova. Tutto ciò che hanno è in prestito, il nome, la tonaca, il loro stesso corpo. E il Papa ha concesso loro di predicare. Ora anche io sono con loro, in ginocchio, le risposte alle invocazioni mi escono spontanee dalla bocca e prego, prego Dio! Francesco vuole andare a Greccio, un paesino arroccato a qualche giorno di cammino da Assisi, per celebrare il Santo Natale. Partiamo con la terra ghiacciata sotto ai piedi e la neve dal cielo; alcuni di noi hanno una mantella calda sulle spalle, un asinello è carico di coperte e Francesco intona un canto con voce limpida. Attraversiamo un borgo, tre case in tutto, e siamo accolti in una stalla, calda, tra le bestie, è sera e per noi una tavola con latte, pane e vino. Somiglia ad un altare quella tavola, Francesco commosso, si fa il segno della croce e tutti dopo di lui, prende il pane e lo spezza, pronuncia brevi parole, distribuisce un pezzetto a tutti, e poi il vino. Eravamo seduti per terra uno vicino all’altro. Durante la cena Francesco spiega ad un uomo che vuole andare a Greccio per Natale per celebrare la nascita del Cristo. I suoi occhi luminosi, i piedi in movimento, quasi danzanti dalla gioia. L’indomani, con l’asinello carico di noci e vino, ci incamminiamo, la carovana ad ogni borgo aumenta di numero di persone. Domani è Natale! Ecco Greccio! I fuocherelli lungo le vie annunciano la sera, un uomo si avvicina a Francesco e gli indica un luogo poco distante. Comincia a nevicare e Francesco, abbassandosi il cappuccio, prosegue con passo sicuro, indicando di seguirlo, si forma una processione, con lanterne, semplici candele. Intona un canto alzando le mani al cielo e tutti lo seguono e poi si interrompe e si sente solo il canto del fuoco lì acceso. Il piccolo frate indica uno spazio dove qualcuno ha costruito una capanna di paglia e assi. La terra come pavimento e sulla paglia un bue e un asinello seduti, rivolti verso una mangiatoia che accoglie un fagotto. Un uomo anziano ed una giovane donna accanto alla mangiatoia. Uno inizia a cantare e da uno a due voci, si forma un coro. Francesco si inginocchia con le mani sulla paglia, le guance piene di lacrime di gioia, le stesse di tutti noi, sì, anche del mio volto! Finalmente piango di gioia, sono contento di essere qui. Un frate celebra la Santa Messa e Francesco intona il Vangelo, con voce tremante come alla sua prima messa. Nell’omelia prende in mano il fagotto e lo culla come se fosse un bambino, e ne spiega la nascita. La neve cade lenta, il fuoco illumina i visi assorti. In quella capanna lunghe ombre ballano tra le luci, in un intreccio di chiaro scuro. Ognuno di noi porta con sè Gesù.
t. r

HANNO LASCIATO UNA TRACCIA-Nelson Mandela

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“Nel corso della mia vita mi sono dedicato alla lotta del popolo africano. Ho combattuto contro la dominazione bianca e ho combattuto contro la dominazione nera. Ho amato l’ideale di una società democratica e libera in cui tutte le persone potranno vivere insieme in armonia e con pari opportunità. È un ideale che spero di vivere. Ma, mio signore, se necessario, è un ideale per cui sono disposto a morire”. Queste sono le parole pronunciate dal premio Nobel per la pace Nelson Mandela davanti alla Corte Suprema di Pretoria, nell’aprile 1964.
Mandela aveva 30 anni quando l’apartheid divenne Legge dello stato in Sudafrica. Era il 1948 e l’odiosa segregazione razziale, ispirata all’ideologia nazista, avrebbe segnato quasi tutta la sua vita. Mandela non ci sta e inizia un’attività di protesta per il pieno riconoscimento dei diritti civili degli appartenenti ai gruppi etnici non bianchi, diventando uno dei leader del movimento anti-apartheid. Per un curioso gioco del destino, il nome scelto per lui alla nascita dalla sua tribù è “Rolihlahla”, ossia “colui che crea problemi”. Mandela crea problemi e nel 1962 viene arrestato con l’accusa di sabotaggio e alto tradimento.
Ritenuto colpevole e condannato all’ergastolo, viene rinchiuso come prigioniero politico per 27 anni nel durissimo carcere dell’isola-prigione di Robben Island: un’isoletta davanti a Cape Town.
Tutti abbiamo sentito parlare di lui almeno una volta: liberato nel 1990 sotto la spinta di un movimento di opinione internazionale, da quella condanna che doveva essere per la vita, con le prime elezioni a suffragio universale del paese, nel 1994, Mandela primo presidente liberamente eletto del Sudafrica è il primo non bianco a ricoprire tale carica.
Nel 1995, agevolò la nascita di una Commissione per la verità e la riconciliazione che lavorò con l’obiettivo di raccontare tutto quello che era successo negli anni dell’apartheid. Fu un capolavoro politico che ha permesso al Sudafrica di lasciarsi alle spalle il suo ingombrante passato e di diventare uno dei paesi più civili e progrediti del continente africano. A chi gli chiedeva il perché della sua politica conciliante, Mandela era solito rispondere:
«Se vuoi fare pace col tuo nemico, devi lavorare col tuo nemico. Solo così diventerà tuo partner».

Quello che molti non sanno, però, è che anche Mandela ha portato il fazzolettone!
Nel 1977 l’associazione scout del Sudafrica iniziò ad accogliere nei vari gruppi sparsi per il paese giovani “di razza negra”, in contrapposizione all’Apartheid. Nel 1994, quando Mandela venne eletto presidente, accettò il ruolo di patrono dell’associazione e riconobbe il lavoro nella lotta contro la segregazione razziale.
Il 23 aprile 2004, ricevette il titolo di “Elefante Africano”: il massimo riconoscimento tra gli scout africani.
Una vita spesa al servizio di un ideale di comunità inclusiva, equa e democratica, che lascia una traccia di coraggio.
Significative sono le parole della celebre poesia di William Ernest Henley, che nei duri anni del carcere gli hanno dato la forza per non arrendersi. Si intitola Invictus (in latino “il mai sconfitto”) e nell’ultima quartina recita:
Non importa quanto stretto sia il passaggio, Quanto piena di castighi la vita, Io sono il padrone del mio destino: Io sono il capitano della mia anima.
Erica

Beauty and the city

Un tramonto; le vette delle montagne innevate che si stagliano contro un cielo turchino; un fiore che sboccia; la visione aerea di un fiume sudamericano mentre sparisce all’interno di un’infinita distesa smeraldo; una metropoli i cui grattacieli si mimetizzano col nero cielo della notte, dando l’illusione che le insegne al neon galleggino a mezz’aria.
Alcuni prodotti dall’uomo, altri frutto di madre natura, quelli che ho provato a descrivere con la mia umile prosa sono tutti comunque dei paesaggi che, convenzionalmente, sono definibili “belli”. C’è qualcosa in loro, vuoi che sia la semplicità della natura in atto o l’involontaria poesia nata dalla rigidità urbanistica, che affascina i nostri occhi, ci sprona calme e forse profonde riflessioni e soprattutto ci dona un senso di serenità.
Tutto l’opposto, insomma, di quella che spesso è la monotonia quotidiana. Ogni giorno i nostri occhi, sulla via per il lavoro o la scuola, sono infatti bombardati da cieli uggiosi o ancora rabbuiati, dal grigiore delle città e da cartelloni pubblicitari di dubbio gusto e, soffocati da tutta quella banalità, il nostro essere antimeridiano non può che reagire con una certa dose di scontrosità mattutina, la quale viene poi soffocata dal torpore che a forza si rimpossessa dei nostri corpi o viene sfruttata per incominciare fin da subito a ragionare sulle questioni che dobbiamo affrontare nell’arco della giornata.
Se davvero le uniche bellezze percettibili dall’uomo fossero quelle esplicite e spettacolari descritte nel primo paragrafo, l’unico modo in cui l’umanità potrebbe sopravvivere sarebbe attraverso un abbonamento perenne allo speciale fotografico del “National Geographic”, e la sua perpetua lettura. Per fortuna dell’umanità, e con buona pace della rivista scientifica americana, le cose non stanno così. Capita infatti che nell’arco della giornata la situazione migliori, ci si trovi più svegli, più disposti ad affrontare le bruttezze del mondo ed addirittura, ma proprio se si è fortunati, a percepirsi vagamente ottimisti.
Se non le fotografie spettacolari, però, cos’è che, all’apparenza inavvertitamente, riesce a darci le stesse sensazioni che la bellezza è in grado di darci? Esiste forse una bellezza surrogato?
La risposta, ovviamente, è no. Ma anche sì.
Non si tratta infatti di un mero surrogato, ma di bellezza vera e propria: quella proveniente dalle piccole cose e, soprattutto, dalle persone.
Il sapore del caffè mattutino, passare una serata tranquilla col proprio amato, incontrare i propri compagni sull’autobus, scambiarsi quattro chiacchiere prima di entrare in classe, parlare coi colleghi di quello che si è fatto la sera prima, rendersi conto che davanti all’edificio dove stiamo tutti i giorni c’è ancora un albero sano e vitale.
L’effetto sugli occhi di tutto quello descritto sopra è sicuramente meno d’impatto delle foto naturalistiche, ma la sensazione che ci lascia dentro è altrettanto, se non ulteriormente, potente. Soprattutto quella nata dalle persone, perché quando qualcuno incomincia a condividere con noi la bellezza che si porta dentro, per una strano principio di vasi comunicanti emotivi, anche noi finiamo con l’aprirci e condividere la nostra bellezza interiore con lui finendo col migliorarci reciprocamente la giornata e, forse, anche un po’ la vita.
Tricheco birbante