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Realizzare i nostri sogni

Ciao, mi chiamo Sofia e sono una Castorina coda nera della Colonia “Grande Alce”. Visto che fra poco ci sarà la grande nuotata vi racconto il mio primo anno scout.
Esattamente un anno fa ho iniziato la mia avventura scout: proprio un anno fantastico… tema di quest’anno “La storia infinita”.
All’inizio dell’anno, una domenica pomeriggio, Patrizia, Zio Malak e Alice ci hanno chiesto di scrivere un nostro desiderio su un aeroplanino di carta, li abbiamo messi in uno scrigno di legno e quando è stata l’ora di leggerli per magia erano scomparsi. Al loro posto abbiamo trovato un medaglione raffigurante due serpenti intrecciati a cerchio.
Abbiamo iniziato la nostra avventura esaudendo il desiderio di Elisa di essere regina per un giorno: siamo andati al castello dei Gonzaga a Fagnano Olona dove una regina ci ha raccontato la leggenda del serpente dei Gonzaga e ci ha fatto visitare il castello. A fine giornata la regina del castello è entrata nel libro magico di fantasia.
Abbiamo poi scoperto che avevamo il compito di salvare, attraverso i nostri sogni, il mondo di fantasia. È stato un anno molto interessante e, attività dopo attività, abbiamo esaudito tutti i desideri, i più disparati. C’era chi voleva essere calciatore: tutti abbiamo giocato una vera partita con tanto di divise e scarpe coi tacchetti. C’era chi voleva essere cavallerizza e siamo andati tutti a cavallo in un maneggio e in quell’occasione abbiamo anche visitato (per soddisfare il desiderio delle veterinarie) un cagnolone che sembrava un leone.
C’è stato chi, invece, si è trasformato in pilota d’aereo, chi in pizzaiolo, chi in maestra o chi ha provato a guidare un treno. Insomma esaudendo desiderio dopo desiderio, siamo arrivati al campo estivo che si è svolto a Corna Imagna.
Una settimana intensa ma molto divertente, abbiamo ogni giorno superato varie prove e concluso il nostro tema dell’anno anno di colonia, salvando la regina e tutto il mondo di Fantasia dal nulla!
Adesso che si avvicina il momento dei passaggi sono molto emozionata ma anche un po’ triste, perché dovrò lasciare i castorini con i quali ho vissuto splendide avventure…
Mi auguro di trovare nuovi amici che mi aiutino a vivere ancora un anno ricco di emozioni come quello passato.
Ciao ciao, a presto,
Sofia

Che bello il campo!


Abbiamo preso il treno e un autobus per arrivare in montagna a Pian dei Resinelli. Eravamo in una casa con tantissime scale: che fatica!
Al campo c’era un paese magico con tanti animali strani. C’era un coniglio con un orologio che correva sempre via, un gatto che spariva e ricompariva. Abbiamo inseguito il coniglio poi abbiamo incontrato Alice e ci ha aiutati a cercare il coniglio perché anche lei voleva trovarlo.
Alla fine non l’abbiamo trovato però avevamo un sacco di indizi che ci hanno dato il capellaio matto, il fante di cuori, il brucaliffo, la regina rossa e la regina bianca. Gli indizi servivano a fare un mondo più bello.
Abbiamo colorato il castello di tanti colori perché la regina di cuori lo voleva rosso e litigava con la regina bianca che lo voleva tutto bianco. Colorandolo di tutti i colori hanno fatto la pace ed erano contente e noi abbiamo fatto una battaglia con le tempere. Eravamo di tutti i colori anche noi. Sembravamo degli arcobaleni di Pace nel pratone.
La regina rossa, che era tutta pelosa, ci ha imprigionati, e ci ha sfidati a cucinarle i pizzoccheri: suo piatto preferito. Ma erano buonissimi e non ci ha tagliato la testa!
Con tanti legnetti e nastri colorati Alice ci ha insegnato a costruire la scala di Giacobbe. Un bel gioco!
Lo stregatto per farci affrontare le paure ci ha fatto fare un percorso sugli alberi. Divertente!
Il brucaliffo poi, ci ha mandati in una miniera dove abbiamo trovato dei sassi brutti. Ma li abbiamo colorati e trasformati in un gioco divertente. Proprio come lui che da brutto bruco verde puzzolente voleva diventare una bella farfalla.
C’era anche l’eco!
Alla fine abbiamo fatto una festa con i genitori.
Insomma, è stato molto divertente.

I Castorini della colonia Cielo blu

Successo indimenticabile per la presentazione de “La Freccia Rossa” sull’impresa degli scout per Don Gnocchi

Il libro "La Freccia Rossa"
Il libro “La Freccia Rossa”

Si è concluso un viaggio, in quella Milano da cui partì 66 anni fa, nel pomeriggio di venerdì 9 ottobre nella prestigiosa Sala Alessi di Palazzo Marino. Si è concluso in quella Milano da cui partì, il 17 luglio 1949 in direzione Skjåk, oltre Oslo. Era il viaggio de “La Freccia Rossa della Bontà”, l’impresa dei rover-scouts lombardi in favore dei mutilatini di Don Gnocchi e, osando guardare più lontano, per un messaggio di pace e amore da lanciare per oltre 8000 km sulle strade impolverate di un’Europa ancora devastata dalla guerra.
L’impresa, all’epoca, fu un successo clamoroso, salutato da illustri quali il Sindaco di Milano  Greppi, presidente del neonato Consiglio Europeo Paul-Henri Spaak e innumerevoli altri personaggi di stato e rappresentanti internazionali.
Ma l’impresa salutata poco fa è ben più recente: si tratta della presentazione di un volume che, finalmente, può raccontare quella storia tanto importante, oggi come allora, con la giusta dignità.

La Sala Alessi gremita
La Sala Alessi gremita

L’opera “La Freccia Rossa – 1949: diario di un’impresa scout attraverso l’Europa” nasce da più di un anno e mezzo di lavoro da parte dei rover e delle scolte del “Clan Zenit”, Gruppo AGESCi Busto Arsizio 3, in occasione del Capitolo Nazionale che ha mosso decine di miliaia di loro coetanei in centinaia di lodeoli iniziative di coraggio e servizio su tutto il territorio italiano.
Questi ragazzi e ragazze tra i 17 e i 21 anni hanno voluto indagare sulla storia dei loro “fratelli maggiori” e, con l’aiuto di Federica Frattini e Andrea Padoin, scout da una vita, hanno raccolto più di sei ore di interviste, decine di fotografie inedite e altrettante pagine di giornali e riviste dell’epoca ora raccolte in questo libro.
Un libro che non vuole solo guardare al passato, ma mostrare questo esempio, “non di eroi – come dice Federica – ma di ragazzi normali che ebbero il coraggio di osare”, soprattutto ai giovani di oggi, che vivono in un’Europa non certo rasa al suolo dai bombardamenti, ma pur sempre scossa da bisogni, spesso sommersi.

I giovani di ieri e oggi
I giovani di ieri e oggi

Presenti, nella sala gremita, molti interessati, sia scout che non, davanti ai relatori. Moderati da Marco Tarquinio, direttore del quotidiano Avvenire, hanno dato il loro contributo all’evento mons. Angelo Bazzari, presidente della Fondazione don Gnocchi, con un intervento sul tema della solidarietà, il dott. Andrea Fanzago, vice presidente del Consiglio Comunale di Milano, che ha parlato delle istituzioni all’interno della società civile, mons. Luca Bressan, Vicario episcopale per la Cultura, la Carità, la Missione e l’Azione Sociale della Diocesi di Milano, espressosi sul tema “Radicati nelle fede”, Roberto Polleri, esperto di Moto Guzzi e pedagogista, che ha prodotto una riflessione sul valore pedagogico dell’impresa, Enrico ed Erica, rappresentanti degli autori, che hanno raccontato la storia e le motivazioni dietro a questa pubblicazione, i curatori Federica Frattini e Andrea Padoin che hanno voluto ricordare il “significato” del libro stesso. Presenti anche rappresentanti di Agesci Zona Milano, organizzatore dell’evento, Zona Ticino-Olona e regionali.
Ma, più importanti di tutti, in prima fila, vi erano alcuni dei testimoni viventi di quel Raid Milano-Oslo, di quel viaggio che, in un certo senso, si è ora concluso, ma che, forse, è appena ripartito verso una nuova meta.
Ulteriori informazioni all’indirizzo qui

“LA FRECCIA ROSSA – 1949: diario di un’impresa scout attraverso l’Europa”
del Clan “Zenit” AGESCI Busto Arsizio 3,
a cura di Federica Frattini
Presentazione di Federica Mogherini – Vice Presidente della Commissione Europea
Patrocinio di WOSM – Regione Europa
Edizioni TIPI, Belluno, 2015
Formato: 22,5 x 22,5 cm, 216 pagine
Prezzo di copertina: 22,00 euro
Cod ISBN: 978-88-98639-31-1
Uscita: 9 ottobre 2015
E’ possibile prenotare il libro qui

Il dolce fardello dell’educare

31 luglio 2015
Tra pochi giorni, per me che scrivo, inizierà il campo estivo che segna la mia ripresa delle attività, non più come rover e non ancora come capo.
Così, nella mia situazione di “viandante”, ragionando su cosa mi aspetta dal prossimo anno scout, mi fermo doverosamente davanti ad una parola non particolarmente lunga ma molto molto grossa: educatore.
Da settembre sarà una nuova sfida, di quelle “da far prudere i denti”, che non si vede l’ora che comincino per sentirsi di nuovo in gioco, in un gioco nuovo.
Pensando a queste cose mi viene naturale scorrere i volti di coloro che, brevemente o a lungo, nel poco o nel molto, sono stati miei educatori. Così, per avere immagini ed esempi invece che solo idee, per ora, incomplete.
Tra tutti questi tanti personaggi che mi hanno accompagnato fin qui, tirandomi, spingendomi o dicendomi “Fermati n’atimo che fors’èmmeglio”, intravedo sempre Chil, o meglio “l’onnipresente berretto di Chil con Chil sotto”.
Una sera, al mio primo campo lupetti, stavo facendo i capricci, come a volte (solo “a volte”) capita facciano i lupetti al loro primo campo estivo. Chil mi prese in disparte e iniziò a consolarmi dicendo, probabilmente, le prime cose che gli venivano in mente, come facciamo spesso con i bambini che fanno i capricci. Solo che ad un certo punto, tra le altre, mi disse delle parole che mi rimasero in mente. Chissà perché di tutto il discorsone, di cui ricordo poco o nulla, quelle parole si sono piantate nella mia testa.
Ricordo che, da quando tornai a scuola, quando qualcuno dei mie compagni di classe era giù, provavo anch’io a consolarlo con quelle parole. Poi, più avanti, nelle situazioni complicate o spiacevoli, quando devo studiare materie che non m’interessano per niente o investire tempo in attività che lascerei tranquillamente ad altri, ricordo quelle parole e trovo la forza di fare, bene o male, quello che devo.
Forse c’è un po’ di autosuggestione, ok, ma guardando a quei momenti e a quelle situazioni, non riesco a non pensare che quelle parole, dette forse per caso a un bambino che forse per caso se le è ricordate, abbiano dato una certa e netta impostazione al mio modo di fare le cose, per non dire di affrontare la vita.
Di tutta la vastità che si racchiude dentro e dietro la parola “educatore” questo mi viene in mente: un educatore non sa quale sua parola o gesto cambierà la vita di qualcuno, ma deve essere consapevole che ciò è possibile e comportarsi di conseguenza.
È un potere terribilmente magnifico.

Geco Coinvolgente

Per Pentecoste

No, non è il titolo. È la scadenza! Dovevo scrivere l’articolo per Pentecoste, ma sono arrivato tardi. Diciamolo: la colpa è anche del titolo. “Vita all’aperto: finalmente!”. Con un titolo così come fa a venirti voglia di sederti alla scrivania e di scrivere un articolo? Ogni volta che ci pensavo l’unica voglia che sentivo era quella di uscire e di farmi due passi. Però ci ho pensato, all’articolo intendo. E più ci pensavo più mi sembrava che queste parole uscissero direttamente dalla bocca degli apostoli. “Perché” vi chiederete “anche agli apostoli piaceva piantare le tende in montagna?” Certo! Ma soprattutto io me li immagino pronunciare queste parole dopo essersi chiusi nel cenacolo per paura dei Giudei. Dopo la morte di Gesù, quando lo sconforto, la disperazione, il dubbio faceva venire voglia di stare sempre tra quattro mura, dietro a solide porte sbarrate. Quel giorno in cui viene loro donato lo Spirito, in cui le porte e i muri non servono più, quel giorno in cui vanno incontro a tutti io me li immagino partire proprio con queste parole: “Vita all’aperto: finalmente!”

E, capirete, non è tanto per l’aria fresca, o per il sole, o per il canto degli uccellini ma per la voglia di non giocare più in difesa, di non vivere più nell’angoscia, di non stare più ad aspettare che altri si mettano in gioco. Ma cosa li rende capaci di vivere così? È forse perché sono degli eroi? Dei campioni? Hanno qualche potere speciale? No, no e ancora no. È la compagnia! Hanno un compagno di viaggio unico: lo Spirito Santo che dimora nel loro cuore, lo Spirito Santo che li rende coraggiosi, generosi, fantasiosi.

Ah beh, allora! Ditelo subito che c’è il trucco, son capaci tutti! Ce l’avessi anch’io lo Spirito Santo farei anche meglio di loro…

don Matteo

La fabbrica incantata

Cari amici ed amiche di Generazione X, dovete sapere che in una grande metropoli del nostro paese viveva un ragazzino di nome Roberto, il cui più grande desiderio era di riuscire a vedere un albero vero. Non uno di quegli alberi brutti e grigi che si trovavano in città, a lato delle strade trafficate. Roberto voleva una foresta rigogliosa e piena di vita, come quelle che finora era riuscito a trovare solo sulle pagine di un libro sponsorizzato dal National Geographic che aveva ricevuto alcuni anni prima a Natale.
Aveva provato più volte a convincere i suoi genitori a portarlo in un posto pieno di natura, ma loro non facevano che ripetergli che per fare una cosa del genere bisognava aspettare le vacanze e, quando un soleggiato pomeriggio di primavera aveva proposto alla madre di andarci da solo, così non avrebbero dovuto prendere le ferie, lei si era limitata ad accarezzarlo, dicendogli che era ancora troppo piccolo, ed era tornata a curare i fiori che teneva sul balcone.

Ma Roberto non si sentiva affatto piccolo, così, durante un uggioso sabato pomeriggio, uscì di casa deciso a trovare quella natura che da tempo andava cercando.
Purtroppo per lui però l’impresa si rivelò ben presto più ardua del previsto. Roberto sperava che, allontanandosi dal quartiere, le condizioni dei vegetali che avevano la sfortuna di abitare in città migliorassero, ma la sua era una speranza vana. I pochi alberi che era riuscito a trovare lungo i marciapiedi erano contorti, secchi e tristi. Gli ricordavano gli alveoli di un fumatore che aveva visto sul libro di scienze. Incominciava poi a chiedersi a cosa potessero servire i cartelli con su scritto “Vietato calpestare l’erba”, chi mai si sarebbe sognato di toccare con una qualunque parte del proprio corpo quei quattro ciuffi marroni? Forse avevano ragione i suoi genitori, e lui era troppo piccolo per spingersi lontano da solo a cercare la natura. O forse non si era spinto lontano abbastanza?

Improvvisamente, gli venne un’idea! A scuola aveva imparato che spesso la natura si trovava ai limiti più esterni delle città, nelle cosiddette “cinture verdi”. Gli sarebbe bastato spingersi fino ai quartieri più lontani per trovare ciò che stava cercando! Così, senza attendere oltre, andò a cercare una fermata dove prendere il primo autobus, deciso a non scendere prima del capolinea.
Roberto aveva viaggiato per più di un’ora, ma la destinazione a cui era arrivato era ben diversa da come se l’aspettava. Al posto degli alti tronchi marroni aveva trovato vecchie ciminiere storte e sbeccate; sopra la sua testa non si trovavano centinaia di foglie verdi di forme diverse, ma solo monotone parti di tetto in decomposizione o sporche travi d’acciaio che lasciavano intravedere un cielo che andava facendosi sempre più grigio, come il suo umore.
Il ragazzo si rese conto di essere finito all’interno di una qualche fabbrica abbandonata, un posto dove era impossibile trovare quel tipo di natura lussureggiante che stava cercando. Triste e deluso per l’esito fallimentare della sua ricerca, Roberto decise di tornarsene a casa; incoraggiato anche da tuoni che, in lontananza, avvertivano dell’imminente arrivo di un violento temporale.
Ma dopo aver percorso solo pochi passi verso il cancello da cui era appena entrato, il suo udito fu colpito da un rumore insolito, come una specie di guaito, provenire da qualche parte all’interno della fabbrica. Curioso di scoprirne l’origine, e di fare qualcosa che rendesse quella giornata un po’ meno brutta, corse a cercare l’origine di quel suono.
Dopo molto girovagare per quell’edificio sconosciuto, Roberto si ritrovò davanti ad una rete di metallo oltre la quale c’era, con una delle gambe posteriori incastrata in un’apertura, un cane.

I due si osservarono brevemente. L’animale aveva un pelo straordinariamente curato, e sembrava essere fin troppo abituato alla presenza dell’umano per essere un randagio: “Che sia stato abbandonato?” pensò Roberto avvicinandosi per liberargli la zampa. Una volta riacquistata la propria libertà di movimento, l’animale schizzò via all’interno della fabbrica, lontano dallo sguardo del proprio soccorritore.
Leggermente rincuorato per avere fatto finalmente qualcosa di costruttivo, Roberto pensò che avrebbe fatto meglio a comportarsi come l’animale ed uscire da lì il prima possibile. Sarebbe bastato girarsi, camminare dritti per un po’, poi svoltare a sinistra alla colonna crollata e si sarebbe trovato subito fuori.
Oppure doveva girare a destra?
Non appena il ragazzo si rese conto d’essersi perso, avvertì una profonda sensazione di freddo partirgli dalla testa, per poi avvolgere rapidamente tutto il suo corpo. Inizialmente la etichettò come una reazione emotiva dovuta al fatto di essersi perso in un luogo sconosciuto e potenzialmente pericoloso, ma ben presto si accorse che tutto intorno a lui il terreno si stava velocemente riempiendo di piccoli cerchi di colore più scuro.

Il ragazzo corse dentro ciò che rimaneva l’edificio per cercare rifugio, ma fu tutto inutile. Il tetto era crollato praticamente ovunque, eliminando ogni possibilità di trovare un riparo dalla pioggia, che intanto si faceva sempre più forte. Disperando di trovare una qualsiasi via di fuga da quella situazione, Roberto stava per arrendersi quando, in mezzo alla fitta massa d’acqua, notò una piccola macchia scura che si dirigeva verso di lui. Inizialmente intimorito, le sue preoccupazioni svanirono quando, oramai arrivato a circa un metro di distanza, la macchia si rivelò essere il cane che aveva salvato poco fa.
I due rimasero immobili a guardarsi l’un l’altro. L’animale, in particolare, guardava Roberto come se stesse valutando se metterlo al corrente o meno di un segreto. Terminate le proprie riflessioni, il cane abbaiò, ed incominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Roberto, temendo di rimanere solo, si mise ad inseguirlo.

Il temporale si stava scatenando in tutta la sua furia; ovunque gli elementi del paesaggio erano stati sommersi da una massa d’acqua grigia che ne aveva sfumato i contorni, rendendo pressoché impossibile per Roberto capire esattamente dove quell’animale lo stesse portando, ammesso che lo stesse portando effettivamente da qualche parte. Più passava il tempo, più il ragazzo si convinceva di essersi lasciato trascinare in un inutile gioco. Eppure, nonostante questi pensieri continuava ad inseguirlo convinto, forse inconsciamente, che fosse la cosa migliore da fare.
Roberto si rese conto di aver fatto la scelta giusta quando, quasi senza accorgersene, si ritrovò in un luogo asciutto. Davanti a lui, quelli che ad una prima occhiata erano i resti un una colonna di cemento armato, un tempo dipinta di un giallo ormai sbiadito; dietro, un muro di acqua grigia che non accennava a diminuire di intensità; sopra, ad almeno un paio di metri d’altezza, un soffitto dall’aspetto strano, la cui esatta composizione era reso ancora più misterioso dalla perenne ombra in cui era bloccato quell’angolo asciutto.
Dopo essersi asciugato il pelo con una robusta scrollata, il cane si avvicinò al ragazzo che, dopo essersi seduto a terra, incominciò ad accarezzarlo.

Dopo quella che gli era parsa un’eternità, le nuvole di pioggia si dispersero, lasciando libero il sole di tornare ad illuminare tutto coi suoi caldi raggi. Roberto approfittò di quel repentino cambio di clima per uscire dal proprio rifugio e cercare di asciugarsi un po’ i vestiti ma, non appena entrò di nuovo in contatto con l’ambiente esterno, si rese conto di una cosa spettacolare.
Il soffitto che fino a poco tempo prima non era stato in grado di identificare era in realtà la foltissima chioma di un albero, il cui tronco era cresciuto fino quasi ad inglobare la colonna di cemento sul quale era appoggiato. Inoltre tutto intorno a lui numerose piante d’edera avevano reso di un acceso colore verde le vecchie pareti della fabbrica. Scintillanti gocce di pioggia ancora riposavano sulle foglie, come tante piccolissime stelle su di un cielo color menta. Le pozzanghere poi avevano trattenuto dentro di loro tutti i colori dell’arcobaleno, riuscendo a dare vivacità addirittura alla vecchia strada in disuso. Euforico per essere finalmente riuscito a portare a termine la sua missione, Roberto si chinò di nuovo ad accarezzare il cane che ormai aveva incominciato a seguirlo: «Sei stato fantastico!» disse. «Non avrei mai trovato tutto questo se non fosse stato per te, grazie…» e qui si interruppe. Come si chiamava il suo nuovo amico sprovvisto di medaglietta? Visto che ormai sembravano destinati a stare insieme, gli sembrava giusto dargli un nome vero e proprio, ma quale? Dopo una breve riflessione, Roberto ebbe una bella idea. Le qualità che il suo nuovo amico aveva dimostrato di possedere erano state intraprendenza e conoscenza del territorio e, almeno secondo quanto scritto nel suo libro del National Geographic, quelle erano le caratteristiche che descrivevano perfettamente un preciso tipo di persona: «D’ora in poi ti chiamerai “Esploratore”, che ne dici?»
Esploratore abbaiò in segno d’assenso.

Due settimane più tardi, Roberto uscì sul balcone per controllare lo stato del piccolo germoglio che aveva piantato qualche tempo addietro. Era da un po’ che aveva iniziato anche lui, come sua mamma, a coltivare l’hobby del giardinaggio. Del resto, grazie alla sua avventura, aveva capito che la bellezza della natura poteva sbocciare ovunque, anche in una città grande ed affollata come la sua.
E poi, da quando era quasi scappato di casa, i suoi lo avevano messo in punizione, proibendogli di uscire per almeno un mese, quindi si era dovuto inventare qualcosa che gli permettesse di rimanere in contatto con la natura fino a quando lui ed Esploratore non sarebbero partiti per la loro prossima avventura.

Tricheco birbante

Quel che resta del rover

Questo è il momento in cui giriamo l’ultima pagina dell’album “Scatti di coraggio: l’esperienza della Route Nazionale 2014”. Devo confessare che sopraggiunge un poco di mestizia. L’idea di scrivere un ciclo di articoli sulla più recente route dell’Associazione mi è venuta perché ritenevo che un evento di tale portata richiedesse molto tempo per essere digerito, apprezzato, giudicato (così scrivevo nell’ormai lontano n. 142 di Tuttoscout). Mi sono accorto, però, che tener viva la memoria mi ha aiutato a tener vivo lo spirito (lo spirito da rover, s’intende: lo spirito saldo e giocherellone). Così quello che doveva considerarsi “fatica” (il lavoro di individuare singoli attimi della Route per analizzarli e cavarne fuori cose intelligenti) è divenuto piuttosto sostegno nell’affrontare una difficile chiamata al servizio (bella espressione: la usano parecchio in Associazione!). Difficile perché seria, seria perché esigente. Ad un incontro regionale capi il simpatico e barbuto assistente ecclesiastico ha spiazzato tutti quando, rivolgendosi ai capi ventenni, ha affermato: “E voi non pensate di considerarvi giovani! Voi siete (dovete essere) adulti. Punto. Non prendiamoci in giro”. Io sono molto in difficoltà quando qualcuno, en passant, mi dice “Ah quindi tu sei capo…”. Momento. Diciamo che mi sto sforzando. Quanto all’adulto, invece, mi sento già più in pista ma non certo per merito mio. Il merito, piuttosto, è dei tanti anni di educazione scout che mi hanno portato alla Partenza. La Partenza serve perché ti danno un’accetta. L’accetta serve per farsi largo nelle difficoltà. Lo spirito rover serve a farsi largo restando dritti e sorridendo.

Questo è quel che resta del rover, ma cosa resta della Route Nazionale 2014? Certamente non poco: le azioni di coraggio, una targa e un portale al parco di S. Rossore, un ricco e stimolante documento. Su quest’ultimo occorrerebbe interrogarsi sia in Clan che in Comunità Capi. Per i Clan: quanto è servita la Carta del Coraggio? Ha orientato la scelta dei capitoli? Ha fornito spunti per modifiche alla Carta di Clan? A queste domande non posso rispondere (magari un pimpante rover o una bellissima scolta potrebbero scrivere un articolo, no?). Per la Co.Ca.: ci siamo interrogati a sufficienza sulla Carta del Coraggio? Ne abbiamo analizzato i contenuti? Abbiamo tratto spunti ed idee per il prossimo progetto educativo di gruppo? La risposta è no, ma bisogna avere pazienza: la fretta uccise il serpente giallo che mangiò il sole. Non si può montare una tenda prima di aver analizzato il terreno e tolto sassi che la notte potrebbero impedirci il sonno tranquillo. La Co.Ca. ha fatto grandi passi avanti in questo anno (alcuni visibili, altri meno): stiamo ancora lavorando, ma sono certo che presto avremo tempo e modo di riflettere sulla Carta del Coraggio e su molte altre importanti questioni.

Mi perdonerete se questo articolo risulta un po’ disordinato: sto scrivendo di getto, diversamente dalle altre volte. Il fatto è che non riesco a trovare un’immagine che possa degnamente riassumere tutta la RN; ne ho ancora parecchie in mente, ma nessuna sembra poter essere così ampia da contenere il ricco significato di un’esperienza storica che non si ripeterà se non fra qualche decennio. Forse dobbiamo guardare alla prossima route nazionale: forse dobbiamo ancora una volta ricordarci che per lo scout, così come per il cristiano, la fine è sempre legata ad un inizio. Forse in questa lunga route che è la nostra vita, il parco di S. Rossore non è stato che una tappa: abbiamo smontato le tende, lasciato il posto meglio di come l’abbiamo trovato e siamo ripartiti. Dove ci fermeremo la prossima notte? Quali compagni avremo di fianco? Chi ci aiuterà a portare lo zaino? Cosa ci aspetta ancora lungo la strada?

Carlo Maria

Come con gli occhi di un Castorino

Ciao a tutti, sono Benedetta, una scolta del clan Zenit e questo è il mio primo anno di servizio nella Colonia Stella Azzurra. Per chi non lo sapesse o non se lo ricordasse i componenti di una colonia sono dei bambini che con una canzoncina di apertura si trasformano idealmente in castorini e creano, tenendosi per mano, una diga piena d’acqua.

Io, che non ho mai fatto parte di una colonia perché sono entrata al terzo anno di reparto, inizialmente non sapevo cosa fosse, proprio come i nuovi arrivati che devono scoprire un mondo mai visto.
Una delle cose che più mi piace è il fatto che i castori riescono a distaccarsi dalla realtà, per esempio quando nelle scenette, pur sapendo che sotto il travestimento c’è una Sara, un Valter o un Robi, lo considerano come un vero e proprio personaggio.
Un’altra cosa che mi affascina è vedere l’espressione dei castorini durante la lettura di uno de “I racconti degli amici del bosco”, infatti essi sono talmente coinvolti e catturati dalla storia che rimangono ad ascoltare quello che il capo sta narrando con un’aria di stupore, di ammirazione, in certi momenti di ironia. Dopo il racconto si è soliti chiedere qual è stata la cosa che li ha più colpiti: sono diverse le une dalle altre e spesso citano anche esperienze che loro stessi hanno vissuto in prima persona, raccontando di come si sono comportati o comunque di come hanno risolto la situazione.
Apprezzo molto la spontaneità dei bambini, la loro capacità di dire quello che pensano, di essere amici di tutti, di fare bene ogni cosa e sebbene abbiano interessi e caratteristiche molto differenti tra loro, hanno sempre la voglia di fare le cose insieme!

L’anno passato insieme a questa meravigliosa famiglia è quasi giunto al termine, resta solo il campo estivo. Posso certamente dire che mi trovo molto bene e che in un certo senso mi sento un po’ tornata bambina, in quanto quando, per esempio, prepariamo le attività siamo tenuti a pensare come bambini. Diciamo che quasi dobbiamo agire come fece William Blake quando scrisse The Song of Innocence, il quale nelle sue poesie descrive con gli occhi di un bambino.
Concludo con una frase di Luis Sepulveda: «I miei sogni sono irrinunciabili, sono ostinati, testardi e resistenti». Perciò non smettiamo mai di sognare e immaginare, proviamo a portare nel nostro quotidiano qualcosa di castorese.
Benedetta

Libellula lunatica

Che cos’è la salute?

Questa domanda mi è stata proposta in un tema scolastico di qualche settimana fa ed è la stessa domanda che volevo rivolgere a voi lettori.
Che cos’è la salute?
Qualcuno dirà: “Eh, bella domanda!”. Ed è quello che mi sono detta io prima che mi venissero idee all’inizio del compito in classe.

La prima cosa che viene subito in mente pensando alla salute è la bellezza del proprio corpo e da una parte è la cosa principale per avere una buona salute.
Ma quindi, bisogna solo avere un “bel corpo” per avere una buona salute? O ci sono altri fattori, forse anche più importanti?
La maggior parte delle persone, soprattutto i giovani, credono che per stare bene bisogna principalmente avere un bel corpo, essere magri ed essere belli, perché al giorno d’oggi il modello della perfezione è una persona con un bel corpo.
Sappiate, cari ragazzi/e, che la persona che ha tutte queste caratteristiche è probabilmente la donna/uomo più infelice sulla faccia della terra.
Basta pensare alle modelle, che per fare quel lavoro devono avere un corpo talmente magro da essere anoressiche e dopo del tempo di carriera si legge sui giornali del loro suicidio.
Al giorno d’oggi ci sono troppe pubblicità che ci ficcano in mente l’idea che per star bene bisogna dimagrire, e che per dimagrire bisogna mangiare sano. Io sono la prima persona che sostiene che un’alimentazione sana ed equilibrata sia una delle cose più importanti nella vita di una persona, perché se non si mangia in una maniera corretta non si può pretendere di avere un bel corpo.

Ma cosa si intende per avere un bel corpo?
La prima riposta che darebbero tutti è che avere un bel corpo significa essere magri, ed è ciò che ci mettono in testa le famose e adorate pubblicità. Quasi tutti, credo, almeno una volta nella vita ci siamo pesati e ci siamo lamentati, ci siamo guardati allo specchio e tirando la “ciccia” abbiamo commentato: “Ma che schifo, sono grasso/a!” (specialmente le ragazze) anche se quella che tiravamo non era grasso, ma pelle.
Tutto questo perché il modello di un corpo perfetto della società di oggi è un corpo magro e noi, come dei caproni, pensiamo che sia davvero così.
Ma tornando al discorso di prima, in base a ciò che ritengo giusto, credo che la felicità di ognuno derivi dal fatto di stare bene con se stessi.

Ma cosa si intende con stare bene con se stessi?
Star bene con se stessi significa sentirsi realizzati per ciò che si fa nella propria vita, avere una famiglia con cui si sta in armonia, trovare degli amici con cui si possa essere se stessi e nel complesso trovare la pace interiore.
Per me stare bene significa allenarmi per superare i miei limiti, andare a scuola per raggiungere i miei obiettivi, avere un buon gruppo di amici con cui passare il mio tempo libero e avere una famiglia che sa ascoltarmi.
Ultimamente si è diffuso il fenomeno delle “finte grasse” che io personalmente odio e la presenza nella mia classe è molto elevata, non so nella vostra. Sono principalmente, se non unicamente, ragazze che hanno un bellissimo corpo, ma che non mangiano, che è la cosa più sbagliata ed inutile, per dimagrire.
Le classiche frasi sono le seguenti: “Mangio solo una merendina a pranzo così evito di ingrassare!” oppure “No! Io non mangio che sono grassa!”.
Poi sono le prime che quando tornano a casa divorano la dispensa come un bulimico in piena crisi ed hanno l’effetto contrario di quello che volevano ottenere.
Io credo che il segreto per avere un bel corpo sia semplicemente mangiare in maniera sana e praticare regolarmente attività fisica. Tutto il resto è assolutamente inutile, specialmente il digiuno.
Qualche giorno fa, mentre camminavo in centro a Milano con una mia amica, mi ha colpito un cartello pubblicitario, che promuoveva una campagna contro l’anoressia e su questo manifesto era rappresentata Isabelle Caro, una modella che morì nel 2010 di anoressia e diceva: “Vorrei riavere il mio corpo di prima, quello che pesava 50 kg, e non quello che ho ora, che ne pesa 25.”
Quel manifesto mi ha fatto riflettere molto e soprattutto mi ha fatto pensare alle mie compagne di classe e alla maggior parte delle ragazze di oggi.

Nella società di oggi conta il parere degli altri.
Nella società moderna bisogna essere magri per sentirsi bene.
Nella società di oggi si seguono le mode.
Nella società moderna non si riesce neanche più ad essere se stessi.
Credo che chiunque si debba poter guardare allo specchio ed essere fiero del corpo che ha, senza piangersi addosso perché ciò che vede riflesso è diverso dallo standard di bellezza.
Bisognerebbe fregarsene del parere di tutti quanti, essere se stessi ed urlare al mondo che essere diversi da tutti è un pregio e non un difetto.
Non hai la 38 come la tua compagna di banco? Trova qualcosa che tu hai e che lei non ha.
E smettiamola di avere un modello della perfezione per la magrezza e la bellezza, perché ognuno è bello per come è.
D’altronde le donne del passato erano considerate più belle se avevano i fianchi larghi ed erano un po’ in carne.
No?

Tigre energica

Pomeriggio in Croce rossa

Sono scout da sei anni e ho fatto tante belle esperienze, ma devo dire che i miei capi del branco Tikonderoga sono davvero un pozzo di belle idee con mille risorse. Infatti domenica 8 febbraio io e il mio branco siamo andati in Croce Rossa a Busto Arsizio per passare un pomeriggio particolare, fuori dall’ordinario.

Ci ha accolto un gruppo di persone che dedicano un po’ del loro tempo a questa attività. La signora Nicoletta, una di queste, all’inizio ci ha fatto vedere due filmati, che poi ci ha spiegato e abbiamo commentato insieme. Vedendo questi video abbiamo imparato cose molto utili, per esempio come si fa a chiamare l’ambulanza in caso di emergenza. Ricordate: il numero da chiamare è il 112!
In seguito abbiamo anche imparato come si fa una fasciatura e come si curano le scottature… Qualche piccolo incidente domestico, purtroppo, alle volte, può capitare…
Infine i volontari hanno simulato un incidente e ci hanno messo subito alla prova: i soccorritori questa volta dovevamo essere noi! C’era chi si era sbucciato un ginocchio, qualcuno a cui erano uscite delle ossa, e altre brutte cose!
Alla fine dell’attività hanno consegnato a ciascuno di noi l’attestato di partecipazione. Non posso cucirlo sulla camicia dell’uniforme, ma lo tengo bene in vista nella mia cameretta!

Trascorrere il pomeriggio in questo modo è stato molto interessante e allo stesso tempo molto divertente. Ed è stato bello conoscere altre persone che trascorrono un po’ del loro tempo libero al servizio degli altri.
“Tutto con il gioco, niente per gioco”: questa domenica abbiamo proprio messo in pratica l’insegnamento di Baden-Powell.

Margherita, tigrotta riflessiva