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Il reparto è l’esperienza più bella

Credo sia dai lupetti che non scrivo un articolo sul Tuttoscout quindi eccomi qua.  Penso che mi debba ripresentare: sono Alessia Zanella e ora sono un secondo anno del reparto Phoenix.
Il B.P. Day: forse il giorno più atteso da tutti gli scout del mondo. Quest’anno noi del Phoenix lo abbiamo vissuto facendo un pernotto ma oltre a questo torniamo al nostro “giorno preferito.” Beh abbiamo fatto le solite cose: issa messa ammaina. Tra un gioco e l’altro la giornata è finita in veramente poco tempo fra i canti della messa e l’allegria il tempo è volato.
Ma adesso vorrei soffermarmi su un altro argomento: la vita in reparto. Appunto per il fatto che non scrivo dai lupetti vorrei raccontarvi proprio questo. Beh diciamo che mi sono responsabilizzata MOLTO di più. Si instaurano amicizie che resteranno per sempre e che non tradiscono mai. Vige la fratellanza e l’uguaglianza fra tutti ma soprattutto il rispetto reciproco: quindi lupetti che avete paura del reparto state tranquilli perché è un’esperienza indimenticabile e bellissima. Beh ovviamente si imparano molte cose nuove di cui io sinceramente non sapevo manco l’esistenza; termini nuovi attività diverse…
Diciamocelo sinceramente: il reparto è l’esperienza più bella che qualcuno possa intraprendere.

La strada che ho fatto grazie all’accoglienza

Finalmente sono di nuovo qua, a scrivere un articolo per mostrare ancora una volta la bellezza dell’avventura scout.
Questo anno, per me, è un po’ particolare: è l’ultimo che passerò in reparto prima di andare nel noviziato.
Eh già, non sembrano mica essersene andati tanti anni da quando sono arrivata nel 2013 qua da voi. Però in realtà di tempo ne è passato.
Questo è il mio sesto anno agli scout…
Quarto anno in reparto…
Ed è forse un po’ stupido da dire, ma questo anno è stata la prima volta che mi sono detta “Wow, fra poco me ne devo andare!” Eppure mi sembra quasi di non aver concluso il mio cammino e spesso penso “Ma se mi fingessi primina funzionerebbe?” Ovviamente no per svariati motivi, ma poi la vera domanda è: “Perché voglio restare in reparto?”
Molti me l’hanno chiesto e io tante volte non ho saputo rispondere. Ma ora credo di saperlo. È semplicemente che ho paura.
Ma non una paura di quelle che non ti fa dormire e ti tortura ogni notte con incubi e brutti sogni; una paura più “simpatica” e meno spaventosa, paura di qualcosa che sai che deve essere così ma non riesci ad accettarlo, paura… delle novità, possiamo dire, di qualcosa che non conosciamo e non sappiamo se vogliamo conoscere, di rischiare, insomma…
È come quando inizi una nuova scuola… un po’ ti spaventa l’idea di non conoscere molte persone, ma d’altro canto non vedi l’ora di passare del tempo con loro e di vivere insieme delle avventure.
È questa la mia “paura”, diciamo. E ce n’è anche un’altra insita in essa: la paura di non essere capace e di non riuscire a integrarmi. Succede ad alcuni, a volte, nella nuova scuola, di stare in disparte per paura di andare a conoscere gli altri. Ma sapete perché, in realtà, questa paura non mi spaventa così tanto? Perché alla fine, a trarci in salvo da quest’ultimo timore sono gli altri. Esatto, proprio quelle persone che non conosci e con cui hai paura di parlare, proprio quelle persone che osservi da lontano e a cui non ti avvicini, sono proprio loro a trarti in salvo. Come? Accogliendoti, ovviamente!
E pensandoci esiste anche un esempio più concreto di quelli usati fino ad ora. Quando un castorino ha appena compiuto la Grande Nuotata e si trova all’improvviso nel branco secondo me prova le stesse cose; così come anche un cda che passa nel reparto attraversando timoroso quel ponte; ed è la stessa che ho provato anche io quando sono arrivata: la paura di come si starà con quelle nuove persone e magari di non trovarsi a proprio agio; ma allo stesso tempo io ho pensato anche “Wow, eccomi qua! Da coccinella sono arrivata in reparto. Da un certo punto di vista mi sono lasciata alle spalle tutto: le mie amiche, Arcanda, Mamma Scotty, Formica Mi, Scibà; ma sono qua, pronta per ricominciare, conoscere nuovi amici e intraprendere nuove avventure!”
E, in fondo, penso che dovrebbe essere questo il pensiero di ogni persona che passa.
Perché in fondo i passaggi sono sì un nuovo inizio, però fanno tutti parte di un unico percorso, quello di crescita. Si parla di crescita personale, spirituale, di gruppo o individuale. Ma la crescita in sè avviene perché si sa di essere capaci di crescere. Perché se tu non pensi di riuscire a fare qualcosa, allora non ci riuscirai.
Ma vorrei soffermarmi su un argomento: quello dell’accoglienza. Esatto, proprio di quella cosa che ci trae in salvo quando pensiamo di perderci nel mare della paura. Essa arriva dagli altri, però anche noi possiamo accogliere qualcuno, e lo facciamo in prima persona quando conosciamo un nuovo fratellino.
Accogliere significa accettare nel nostro gruppo, ed è proprio quello che succede agli scout.
Ogni anno infatti accogliamo nuovi amici e insieme a loro viviamo dei weekend e dei giorni fantastici! Ogni anno decidiamo di voler bene a nuove persone, di unirle a noi e di integrarle.
Ogni anno accogliamo tante persone e spesso anche noi siamo accolti dagli altri.
Ogni anno dimostriamo di saper accogliere e, in fondo, accogliere fa bene sia al nuovo arrivato che a noi!
Canarino Stravagante
(Carmela Scida)

La Promessa è un’accoglienza

reparto perseo

Non ho molti amici negli scout. E’una considerazione che ho fatto recentemente pensando al rapporto tra me e le altre persone che mi circondano nella vita di Gruppo e il verdetto non mi ha entusiasmato, ma lo sapevo: non sono mai stato troppo bravo sotto questo punto di vista, non penso sia colpa degli altri. Eppure, mentre indagavo questo aspetto, non riuscivo a dare un nome a quella cosa tra me e i miei pari negli scout. Non sono semplici conoscenti (andiamo! “conoscente” è il panettiere sotto casa…) ma anche la parola “colleghi” stonava decisamente così come molti altri appellativi in cui cercavo di incasellare quello strano legame. Ad un certo punto una voce saggia mi ha suggerito la risposta, così ovvia da essermela dimenticata: siamo fratelli scout.
Quante volte ce la siamo detta questa cosa? Probabilmente troppo poche, forse la sua sacralità, avvolta nelle parole della Promessa, l’ha resa troppo poetica, filosofica, astratta… Probabilmente i nostri fratellini e sorelline del branco sono più fortunati perché se lo sentono ripetere più spesso e si sentono chiamare davvero così. Mi sono sorpreso nello scoprire come per me questa risposta non fosse stata così automatica o, forse, lo era ma nascosta nelle certezze segrete che conserviamo dentro di noi.
I figli minori nascono fratelli, i maggiori lo diventano, ma negli scout lo si sceglie: quando si pronuncia la Promessa si decide di voler accogliere gli altri scout come fratelli e sorelle, non come amici d’infanzia o compagni di classe e, allo stesso tempo, si viene accolti da tutti gli altri scout (anche quelli che non ci conoscono). Quest’accoglienza dev’essere fatta con gioia! Se non si è felici nel momento della promessa, non si è pronti.

Si è fratelli nonostante tutto. Essere fratelli e sorelle non rende automatico l’amarsi, l’andare d’accordo, l’aiutarsi, ma lo si è a prescindere da quelle che possono essere le mancanze di una relazione, gli incidenti, le divergenze. Accogliere con gioia è difficile, pesante a volte, ma è una scelta molto potente che ci consegna ad una certezza, come detto prima, più grande. Dobbiamo farci carico di questa grandezza, coltivarla nelle relazioni che formiamo nello scoutismo e ricordarcene, nelle difficoltà come nelle gioie, per vivere appieno la nostra Promessa che è, innanzitutto, un’accoglienza reciproca e gioiosa nella grande famiglia degli scout.

Geco Coinvolgente

Accogliere con gioia

Il mondo dello scoutismo ha sempre aiutato tutti noi che ne facciamo parte ad accettare e ad accogliere chi ci sta attorno indipendentemente da chi esso sia.
Il mondo in cui io personalmente sono cresciuta e che mi ha plasmata, mi ha fatto crescere molto e mi ha fatto capire che bisogna andare sempre oltre alle apparenze e che la frase “non giudicare un libro dalla copertina” non è una frase che qualcuno ha detto per puro caso ma che sia una frase assolutamente mirata e che andrebbe ascoltata molto di più soprattuto da noi e da i nostri coetanei che spesso giudichiamo ed evitiamo chi prova a far parte di noi e chi vuole provare a partecipare alla nostra quotidianità.
Amo il modo in cui essere una scout mi ha aiutato a accogliere chi mi veniva incontro o, in qualche modo, mi ha aiutato a provarci.
Penso che la condivisione di esperienze uniche nel loro genere che possono essere considerate inusuali da chi ci circonda e che non ha mai provato ad entrare in un mondo così diverso ma stupendo come quello dello scoutismo, aiuti tutti noi scout ad essere sempre più uniti e pronti ad accogliere chi vuole condividere nuove avventure che possono essere campi, osservare panorami favolosi alla fine di una faticosa salita che maledici passo dopo passo ma che alla fine sei felice di aver fatto, dormire in tenda con la propria squadriglia e cantare a squarciagola davanti al fuoco canzoni che tutti sappiamo e che tutti, costantemente, stoniamo.
Accogliere è un’azione meravigliosa che ti permette di conoscere sempre più persone che entreranno nella tua vita e che, forse, riusciranno a farti diventare una persona migliore e che faranno parte della tua felicità. È per questo che bisognerebbe accogliere con gioia e felicità. Spesso il piccolo sforzo che si fa per andare oltre ai pregiudizi e all’apparenza per riuscire ad accogliere qualcuno viene ripagato e ci regala qualcosa di unico.
Quokka Empatico
Sofia Pendin

Branco Tikonderoga – Il giorno della memoria

Accade facilmente a chi ha perso tutto di perdere sé stesso

Primo Levi

Il significato di questa frase è che è facile perdersi d’animo e perdere la ragione di sopravvivere dopo che si è vissuto un periodo dove ti hanno strappato il diritto di avere una vita normale.
Tutto questo è accaduto nei campi di concentramento lontano da tutto e lontano dai tuoi cari. In questi posti le persone venivano maltrattate ed uccise ingiustamente.
Per questo motivo il 27 gennaio viene ricordato il giorno della memoria, perché nessuno dimentichi ciò che è successo. Ci sono molti film e libri sui campi di concentramento in cui si può veramente sentire il dolore delle persone che sono morte.

Sveva Simone, Rosa Lampugnani

Branco Tikonderoga – Le Beatitudini

È sempre lui… Dio!

È sempre lui che mi accompagna in giro, è sempre lui che sorveglia su di me!
Lo so che molti di voi non credono molto, ma vi consiglio di leggerlo comunque.
Non voglio dirvi che dovete assolutamente credere a Dio, ma vi consiglio di pensarci, perché così Lui sa che voi state pensando a Dio e Lui cercherà di “parlarvi”.
A me ha fatto capire che non devo sprecare la mia vita a divertirmi, perché in questi giorni mi stanno parlando delle beatitudini.
Un santo ha detto: “beato chi è nel pianto, perché verrà consolato!”, non so se sia una cosa molto bella, ma Gesù ha detto così!
Un altro santo ha detto: “beati i poveri in spirito, perché di essi è il regno dei cieli”. Non sono cose che si dicono in giro, ma sono cose belle.
In tutti voi c’è qualcosa di beato. In poche parole siete tutti beati, sia io che voi.

Elisa

Branco Tikonderoga – Il falco pigro

Un grande re ricevette in omaggio due pulcini di falco e si affrettò a consegnarli al Maestro di Falconeria perché li addestrasse. Dopo qualche mese, il maestro comunicò al re che uno dei due falchi era perfettamente addestrato. «E l’altro?» chiese il re.
«Mi dispiace, sire, ma l’altro falco si comporta stranamente; forse è stato colpito da una malattia rara, che non siamo in grado di curare. Nessuno riesce a smuoverlo dal ramo dell’albero su cui è stato posato il primo giorno. Un inserviente deve arrampicarsi ogni giorno per portargli cibo».
Il re convocò veterinari e guaritori ed esperti di ogni tipo, ma nessuno riuscì a far volare il falco.
Incaricò del compito i membri della corte, i generali, i consiglieri più saggi, ma nessuno poté schiodare il falco dal suo ramo. Dalla finestra del suo appartamento, il monarca poteva vedere il falco immobile sull’albero, giorno e notte.
Un giorno fece proclamare un editto in cui chiedeva ai suoi sudditi un aiuto per il problema. Il mattino seguente, il re spalancò la finestra e, con grande stupore, vide il falco che volava superbamente tra gli alberi del giardino. «Portatemi l’autore di questo miracolo», ordinò.
Poco dopo gli presentarono un giovane contadino. «Tu hai fatto volare il falco? Come hai fatto? Sei un mago, per caso?», gli chiese il re.
Intimidito e felice, il giovane spiegò: «Non è stato difficile, maestà. Io ho
semplicemente tagliato il ramo. Il falco si è reso conto di avere le ali ed ha incominciato a volare».

Talvolta, Dio permette a qualcuno di tagliare il ramo a cui siamo tenacemente attaccati, affinché ci rendiamo conto di avere le ali.
Siamo tutti nati per volare, per sprigionare l’incredibile potenziale che
possediamo come esseri umani. Ma a volte ci sediamo sui nostri comodi rami casalinghi, abbarbicati alle cose che per noi sono familiari. Le possibilità sono infinite, ma per molti di noi, rimangono inesplorate. Ci conformiamo alla familiarità, al comfort e all’ordinario.
Quello che è successo al pennuto di questa bellissima storia è ciò che ci succede quando riusciamo ad allontanarci dalla nostra cosiddetta “zona di comfort”, superando le paure e i limiti che spesso ci tengono bloccati.

Dagli scritti di B.P.: Quando ero giovane c’era in voga una canzone popolare: «Guida la tua canoa» con il ritornello» «Non startene inerte, triste o adirato. Da solo tu devi guidar la tua canoa». Questo era davvero un buon consiglio per la vita… sei tu che stai spingendo con la pagaia la canoa, non stai remando in una barca. La differenza è che nel primo caso tu guardi dinnanzi a te, e vai sempre avanti, mentre nel secondo non puoi guardare dove vai e ti affidi al timone tenuto da altri e perciò puoi cozzare contro qualche scoglio, prima di rendertene conto. Molta gente tenta di remare attraverso la vita in questo modo. Altri ancora preferiscono imbarcarsi passivamente, veleggiando trasportati dal vento della fortuna o dalla corrente del caso: è più facile che remare, ma ugualmente pericoloso. Preferisco uno che guardi innanzi a sé e sappia condurre la sua canoa, cioè si apra da solo la propria strada. Guida tu la tua canoa!
…cos’altro aggiungere… affidarsi e condividere gioie e fatiche!
Buona caccia!

Chil

Branco Albero del Dhak – Lupetti per una sera

04-1   Sabato 10 marzo noi genitori del branco Albero del Dhak ci siamo trasformati in lupetti per una sera, infatti siamo stati accolti in branco, abbiamo imparato alcune regole del branco, siamo stati divisi in sestiglie (ci hanno colorato in faccia con la tempera e abbiamo creato il nostro poster di sestiglia!) e abbiamo giocato, mentre i nostri figli sono diventati adulti, hanno fatto la spesa e hanno apparecchiato e cucinato per noi.
Ci siamo divertiti davvero tanto, e oggi mi chiedevo: perché quando si diventa adulti si smette di giocare? Perché diventare troppo seri, uccidendo il nostro bambino interiore?
Dai, sarebbe bello trovarci non solo per mangiare, bere e parlare, ma anche giocare insieme… ce li hai,
sparviero, palla infuocata… magari la ruggine sparisce!
Grazie a tutti i capi scout dell’Albero del Dhak!

 

Maricela

 

 

 

 

 

 

 

 

 

L’accoglienza non è una pratica di assistenzialismo ma una festa

L’accoglienza è un tema scomodo e molto discusso in questi tempi e l’analisi delle varie parti politiche e sociali spesso risulta essere oltre che parziale insufficiente.
Per comprenderne meglio l’essenza è sufficiente partire da una semplice constatazione. L’accoglienza sta alla radice del nostro essere uomini e donne in questa terra. Fin dalla nascita ognuno di noi è stato accolto dai genitori e come figli abbiamo accolto i nostri genitori nel progetto della nostra vita. Non abbiamo scelto quella mamma e quel papà, eppure li abbiamo accolti e loro hanno accolto noi e tenendoci fra le loro braccia hanno percepito che eravano – molto più e molto altro – rispetto dall’immagine che si erano creati di noi. Accogliere dunque è scoprire l’altro.
Se partiamo da qui comprendiamo subito come ogni momento della nostra vita personale è in realtà caratterizzato dall’accoglienza e pertanto l’accoglienza non è una pratica di assistenzialismo come ce la vogliono vendere opinion leaders e politici (accolgo il povero, l’indifeso, il derelitto, perché ho di più, perché sono più fortunato, perché sono il buono) ma è una cifra che fa parte del nostro essere umani.
L’accoglienza dunque sta alla base delle relazioni che ogni giorno creiamo. Accogliere chi ci assomiglia, che vive nello stesso contesto, che condivide stile e tradizioni simili o uguali alle nostre è facile, talmente facile che lo diamo per scontato, che non ci sembra nemmeno di farlo. Eppure ne siamo esperti.
Oltre ad una scoperta l’accoglienza può esser una provocazione, perché quando accogliamo non è sufficiente fare affidamento al nostro ruolo o alla nostra competenza (figlio – genitore, educando – educatore, caposquadriglia – guida / esploratore…), ma dobbiamo metterci in gioco completamente, con le nostre debolezze e dobbiamo lasciare che anche l’altro ci accolga e accettare anche che l’altro possa decidere di non accoglierci.
Dobbiamo fare i conti con la possibilità che chi troviamo di fronte possa non condividere il nostro pensiero e la nostra cultura. In questo caso non è certo facile ma dobbiamo lasciarci guidare dalla consapevolezza che “Non si cresce solo tra chi ci assomiglia” (cit). Al contrario, maturità e crescita si basano sullo scontro e incontro di idee e pensieri differenti.
Come Scout e come Cristiani mi piace pensare che possiamo anzi che dobbiamo “fare la differenza” anche in questo. Dobbiamo rendere il nostro accogliere un atto di gioia e d’amore.
Basta pensare al modo di accogliere che sperimentiamo fin dal primo giorno in cui arriviamo in Colonia, Branco, Reparto… caratterizzato dalla felicità, espressa con canti e balli, abbracci e risate.
Questo è per me il giusto modo di accogliere. Una grande festa. Come quando nasce un bambino, come ad un matrimonio, come quando rivediamo un parente o un amico dopo tanto tempo, come Gesù che venne accolto a Gerusalemme dalla folla che lo acclama come Re, agitando fronde e rami presi dai campi.

Sara

A.E.: “Farsi piccoli”

“Gesù e i discepoli partirono di là e attraversarono tutta la Galilea”. Queste parole del Vangelo di Marco ci introducono nel viaggio appena intrapreso da Gesù dalla Galilea verso Gerusalemme; un viaggio che più volte l’evangelista ricorderà nei capitoli seguenti.
La scena che ci viene presentata dal Vangelo è semplice: Gesù prende con sé i discepoli e “cammina davanti a loro” – è così del pastore che guida il suo gregge – dirigendosi verso Gerusalemme. Potremmo vedere in questa bella immagine evangelica il ritrovarsi dei cristiani ogni domenica attorno al loro Maestro e Pastore. Lungo la strada, com’è suo solito, Gesù parla con i suoi discepoli. Ma questa volta non appare anzitutto come maestro bensì come l’amico che apre il suo cuore ai suoi amici più intimi.
Sì, Gesù, che non è un eroe freddo e solitario che può fare a meno di tutti, sente invece il bisogno di confidare ai discepoli i pensieri più segreti che agitano in quel momento il suo cuore. E dice loro: “Il figlio dell’uomo sta per essere consegnato nelle mani degli uomini e lo uccideranno”. Forse i discepoli ricorderanno queste parole solo al termine del viaggio, a Gerusalemme, quando esse si realizzeranno quasi alla lettera sulla croce. Ora, nessuno comprende. Eppure, le parole sono drammaticamente chiare.
Ma perché i discepoli non le comprendono? La risposta è semplice. Non comprendono quel che Gesù dice perché il loro cuore e la loro mente sono lontani dal cuore e dalla mente del Maestro; le loro ansie sono altre rispetto a quelle di Gesù, e il loro cuore batte per ben diverse preoccupazioni. Come possono capire stando così distanti? Gesù è angustiato per la sua morte, mentre loro sono preoccupati per il posto, per chi di loro è il primo. È un’esperienza che ci è molto familiare: in questo non siamo dissimili da loro, e continuiamo a comportarci come loro. Il seguito del racconto evangelico, potremmo dire, è davvero disarmante. L’evangelista fa supporre che Gesù, durante il cammino, sia restato solo davanti al gruppo dei discepoli, i quali, rimasti appunto indietro senza tener conto delle drammatiche parole confidategli dal Maestro, si sono messi a discutere su chi tra loro dovesse prendere il primo posto. Arrivati in casa a Cafarnao Gesù chiede loro di cosa stessero discutendo lungo la via. Ma “essi tacevano”, nota l’evangelista. Finalmente provavano almeno un po’ di vergogna per quello di cui avevano discusso. E fecero bene. La vergogna è il primo passo della conversione, essa nasce, infatti, dal riconoscersi distanti da Gesù e dal Vangelo. Il peccato è la distanza da Gesù, prima ancora che un gesto cattivo in particolare. E se la vergogna per tale distanza non c’è, dobbiamo preoccuparci. Quando non c’è vergogna del proprio peccato, quando si attutisce la coscienza del male che si compie, quando non si dà il peso al proprio peccato, ci si esclude di fatto dal perdono. E il vero dramma della nostra vita è quando non c’è nessuno che ci chiede, che ci interpella, come fece Gesù con i discepoli: “di cosa stavate discutendo?” Resteremmo prigionieri di noi stessi e delle nostre ben misere sicurezze.
Gesù, guardando con speranza quel piccolo gruppo di discepoli, iniziò a parlare ribaltando completamente le loro concezioni: “Se uno vuol essere il primo, sia l’ultimo di tutti e il servo di tutti”. Anche a Giacomo e Giovanni risponderà nello stesso modo: “Chi vuol essere grande tra di voi sia vostro servitore e chi vuol essere il primo tra voi sia il servo di tutti” (Mc l0, 43-44). Gesù sembra non contestare la ricerca di un primato da parte dei discepoli. Ne rovescia però la concezione: è primo chi serve, non chi comanda. E perché comprendano bene quello che vuol dire, prende un bambino, lo abbraccia e lo mette in mezzo al gruppo dei discepoli, è un centro non è solo fisico, ma di attenzione, di preoccupazione, di cuore.
Quel bambino – vuol dire il Signore ai discepoli – deve stare al centro delle preoccupazioni delle comunità cristiane. E ne spiega immediatamente il motivo: “Chi accoglie uno di questi bambini, accoglie me”. L’affermazione è sconvolgente: nei piccoli, negli indifesi, nei deboli, nei poveri, nei malati, in coloro che la società rifiuta e allontana, è presente Gesù, anzi il Padre stesso. “Farsi piccoli” non significa assumere un atteggiamento umilista e remissivo (spesso questo vuol dire disinteresse, rassegnazione o fuga da responsabilità), bensì accogliere dentro le nostre preoccupazioni e dentro i nostri pensieri (il che non significa trovare sempre soluzioni) tutti i piccoli e gli indifesi. Essi continuano ad essere posti da Gesù stesso al centro di ogni comunità cristiana. Beati noi se li accogliamo e li abbracciamo come fece Gesù con quel bambino.

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