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I sentieri dell’educare

In cammino verso Kandersteg
In cammino verso Kandersteg

Capita sempre, quando si organizza un’escursione di qualsiasi tipo, di trovarsi di fronte una grande varietà di percorsi possibili, e spesso può capitare che la mente dell’organizzatore si perda in mezzo a questa moltitudine di possibilità. Meglio provare sentieri aspri e tortuosi, che salgono con pendenze anche non indifferenti, portando l’escursionista sul tetto del mondo, percorsi piacevoli e pianeggianti per chi preferisce perdersi nel verde della natura piuttosto che perdere il fiato, oppure una qualunque delle pressoché infinite possibilità intermedie?
Allo stesso modo, chiunque si ritrovi a svolgere il ruolo dell’educatore, si trova a dover decidere, basandosi sulla propria esperienza, quale tra le ancora più numerose possibilità della vita sia quella giusta verso la quale indirizzare il proprio educando.
All’inizio può capitare di farsi prendere dall’entusiasmo, di decidere di correre su per le salite più impervie, ridendo in faccia alle avversità che si sono già affrontate decine di volte, sicuri della riuscita più che positiva delle nostre azioni.
Eppure ora che finalmente mi avvicino al concetto di educatore, mi rendo conto che questo è il modo sbagliato di affrontare le cose, e ancora una volta mi aiuta a capirlo la metafora dell’escursione.
La prima idea, infatti, può essere sfruttata senza problemi quando a praticarla è una persona ricca d’esperienza, ma inadatta a chiunque si trovi alle prime armi.
Così, come la regola d’oro non scritta della montagna vuole che il percorso debba sempre essere tarato sulla persona meno esperta del gruppo, allo stesso modo mi sto rendendo conto che, se voglio davvero essere un buon educatore, dovrò essere in grado di mettere da parte il mio desiderio di far conoscere loro tutto e subito, per poter invece diventare una guida decisa ma comprensiva, ed essere in grado di accompagnare l’educando nel suo percorso.
Nella paradossale speranza che, un giorno, il suo passo diventi più veloce del nostro, e questo continui il suo sentiero da solo.

Tricheco Birbante

Il dolce fardello dell’educare

31 luglio 2015
Tra pochi giorni, per me che scrivo, inizierà il campo estivo che segna la mia ripresa delle attività, non più come rover e non ancora come capo.
Così, nella mia situazione di “viandante”, ragionando su cosa mi aspetta dal prossimo anno scout, mi fermo doverosamente davanti ad una parola non particolarmente lunga ma molto molto grossa: educatore.
Da settembre sarà una nuova sfida, di quelle “da far prudere i denti”, che non si vede l’ora che comincino per sentirsi di nuovo in gioco, in un gioco nuovo.
Pensando a queste cose mi viene naturale scorrere i volti di coloro che, brevemente o a lungo, nel poco o nel molto, sono stati miei educatori. Così, per avere immagini ed esempi invece che solo idee, per ora, incomplete.
Tra tutti questi tanti personaggi che mi hanno accompagnato fin qui, tirandomi, spingendomi o dicendomi “Fermati n’atimo che fors’èmmeglio”, intravedo sempre Chil, o meglio “l’onnipresente berretto di Chil con Chil sotto”.
Una sera, al mio primo campo lupetti, stavo facendo i capricci, come a volte (solo “a volte”) capita facciano i lupetti al loro primo campo estivo. Chil mi prese in disparte e iniziò a consolarmi dicendo, probabilmente, le prime cose che gli venivano in mente, come facciamo spesso con i bambini che fanno i capricci. Solo che ad un certo punto, tra le altre, mi disse delle parole che mi rimasero in mente. Chissà perché di tutto il discorsone, di cui ricordo poco o nulla, quelle parole si sono piantate nella mia testa.
Ricordo che, da quando tornai a scuola, quando qualcuno dei mie compagni di classe era giù, provavo anch’io a consolarlo con quelle parole. Poi, più avanti, nelle situazioni complicate o spiacevoli, quando devo studiare materie che non m’interessano per niente o investire tempo in attività che lascerei tranquillamente ad altri, ricordo quelle parole e trovo la forza di fare, bene o male, quello che devo.
Forse c’è un po’ di autosuggestione, ok, ma guardando a quei momenti e a quelle situazioni, non riesco a non pensare che quelle parole, dette forse per caso a un bambino che forse per caso se le è ricordate, abbiano dato una certa e netta impostazione al mio modo di fare le cose, per non dire di affrontare la vita.
Di tutta la vastità che si racchiude dentro e dietro la parola “educatore” questo mi viene in mente: un educatore non sa quale sua parola o gesto cambierà la vita di qualcuno, ma deve essere consapevole che ciò è possibile e comportarsi di conseguenza.
È un potere terribilmente magnifico.

Geco Coinvolgente