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Generazione X – So long, and thanks for all the friendship

Benvenuti cari amici ed amiche ancora una volta sulle pagine di generazione X.
Le storie di fantasia, spesso, hanno degli inizi molto bizzarri e spettacolari: astronavi che si inseguono, esploratori che scappano da macigni giganteschi, l’intero viaggio di un proiettile dalla fabbrica fin nella testa di un uomo, spie che ci sparano contro molto altro ancora. Ovviamente la funzione principale di questi espedienti è di catturare il prima possibile la nostra attenzione (e non farci accorgere che stiamo semplicemente assistendo ai titoli di testa) ma ciò non toglie che, quando sono fatti bene, essi diventano una parte integrante della storia, nella quale noi quindi entriamo “in media res” cioè quando la vicenda è già iniziata. La storia che noi viviamo di giorno in giorno, invece, inizia insindacabilmente coi monotoni e sonnacchiosi primi giorni dopo il parto.
Ma è davvero così?
Per molti potrebbe sembrare naturale pensare alla nascita come all’inizio della propria vita, e sono sicuro che per molti dei lettori più giovani il contrario non sia nemmeno da considerare eppure capita spesso, nella vita degli uomini, di arrivare ad un punto in cui dentro scatta qualcosa. Un incontro, una scelta, che inevitabilmente finirà per essere uno spartiacque della propria esistenza. Un esempio tanto estremo quanto significativo, in tal senso, può essere la vita di san Francesco. Sappiamo tutti come lui iniziò la propria esistenza come il figlio di un ricco mercante, amante delle armi e dei romanzi di cavalieri tipici dell’epoca, per poi cambiare completamente il proprio stile di vita e dedicarsi alla vita di chiesa. È difficile pensare che San Francesco pensasse a quei giorni di ricco ozio come una parte integrante di chi era, e non piuttosto come un trampolino che lo aveva preparato al grande salto verso la fede.
Molte volte, insomma, capita che quello che possa essere inizialmente concepito come l’inizio, non sia altro che una preparazione, un trampolino, e che il vero succo del cambiamento e della progressione stia piuttosto nei finali. Ad esempio per molti, oggi, si conclude un percorso nei castori, nei lupetti, in reparto o addirittura in Clan, solo per incominciarne un altro in una branca differente dove le avventure che si vivranno saranno ancora più varie ed emozionanti.
Ed è con in mente un’idea del genere che, dopo tanti anni, ho finalmente deciso che voglio provare a chiudere un capitolo della mia esistenza ed aprirne un altro, chiudendo questa piccola rubrica.
La nostra cara “Generazione X” era nata (tra l’altro, non per mia iniziativa) come un luogo dove un giovane scout potesse esprimere il suo punto di vista sull’associazione degli scout e come il suo stile di vita ne venisse influenzato, ed io questo ho provato a fare da quando la rubrica mi fu consegnata, all’inizio della mia vita di repartista.
Non dirò esplicitamente che sento il bisogno di chiudere la rubrica perché non sono più giovane; un po’ perché già solo nell’associazione c’è chi merita l’appellativo di “vecchio” ben più di me, un po’ perché sento di non meritare ancora quella supposizione di esperienza e saggezza che il titolo comporta, però sento, questo sì, di non essere più la persona ideale per rispecchiare quello che i membri più giovani del gruppo pensano e credono.
Questi motivi, quindi, mi spingono a lasciare queste pagine, nella speranza di trovare qualcuno, giovane ed amante della scrittura, che vorrà riprendere il prima possibile il mio posto.
Purtroppo per voi, questo non vuol dire che vi siate finalmente sbarazzati di me; sfogliando questo stesso numero troverete il mio nome sotto ad altri articoli, e così sarà ancora per spero molto, molto tempo. Quindi, anziché sentirci delusi per il passato che si è appena compiuto suggerisco, piuttosto, di essere felici per il futuro che è appena iniziato.

Tricheco Birbante

The next generation

Buongiorno amici ed amiche e bentornati ancora una volta sulla nostra rubrica di Generazione ***.
Spero che il Manzoni vorrà perdonarmi se rubo la sua tecnica per non rivelare le informazioni, ma mi sembrava un metodo interessante per porre una domanda: di quale generazione stiamo effettivamente parlando?
Col tempo questa rubrica è finita col trasformarsi in un “cantuccio dell’autore” dove l’autore, cioè il sottoscritto, ha dato la sua opinione sulla vita scoutistica e sulle tematiche trattate nei rispettivi Tuttoscout. Tutto questo, si spera, senza aver mai annoiato i mie gentili 25 lettori.
Ma lo scopo iniziale della rubrica non era questo. Non proprio almeno. Quando, ormai quasi dieci anni fa, mi fu proposto di gestire questa rubrica, l’idea era di avere un posto dove poter vedere come veniva vissuta la realtà scout da un giovanotto del reparto.
Una rubrica integralmente dedicata alla gioventù insomma. Se poi il sottoscritto sia stata una buona scelta per rappresentare un’intera generazione, è una questione la cui risposta lascio ai lettori.
All’epoca il titolo della rubrica mi pareva solo un modo più interessante ed a tratti fantascientifico per indicare una generazione qualunque, proprio come la X può indicare, in matematica, una qualunque incognita.
Con mia grande sorpresa ho poi scoperto che la “Generazione X” è invece una vera e propria generazione. Per la precisazione quella generazione nata tra il 1963 ed il 1980, che ha vissuto la caduta del muro di Berlino e dell’Unione sovietica, la consacrazione degli Stati Uniti come superpotenza mondiale e la nascita di MTV.
Quindi non solo mi trovo a rappresentare un’intera generazione, ma tecnicamente neppure sto rappresentando la generazione a cui appartengo, ovvero quei Millennials che ora vanno tanto di moda. Nati tra gli anni ’80 ed il 2000, sono considerati super-tecnologici, intraprendenti, refrattari ai più tradizionali mezzi di comunicazione. Sempre connessi ma anche inguaribilmente bamboccioni ed in ultima istanza forse inevitabilmente perduti in seguito alla crisi economica iniziata nel 2008.
In prima istanza mi sono sentito un po’ giù di corda nel vedere che l’intera vita di migliaia e migliaia di individui (me compreso) fosse già stata sterilmente analizzata e catalogata da fior fiori di esperti, molti dei quali al lavoro già da quando io avevo appena tre anni. Ma il tema di questo Tuttoscout, cioè il crescere e la crescita, mi ha spinto a riflettere più approfonditamente su cosa voglia dire essere parte di una generazione e, statistiche su quanti soldi io ed i miei più o meno coetanei spendiamo in tecnologia ed imbarazzanti documentari a parte, credo che il fatto più importante che unisca gli individui facenti parte di una determinata generazione siano le esperienze comuni.
Quello che davvero ci rende unici, che ci permette di essere individui con opinioni profondamente diverse nonostante la data di nascita sfasi solo di un paio d’anni, sono i modi in cui ciascuno di noi ha reagito a quelle esperienze comuni.
Ed è questo che vuol dire crescere. Avere nuove idee e nuovi punti di vista sul mondo a partire da quanto ci avviene e rifletterci sopra.
Non so quali saranno le sfide e le esperienze che vi caratterizzeranno, giovani generazioni che solo ora vi affacciate alla storia, ma già da adesso vi dico che, se state leggendo questo giornale, ho speranza e fiducia in voi perché finché rimarrete scout, non solo con la divisa ma di mente e d’attitudine, so che non chiuderete mai la mente alle sfide che l’inesorabile marciare della storia vi porrà davanti e, quindi, non smetterete mai davvero di crescere.
Se questo articolo v’è piaciuto, vogliate un po’ di bene a chi l’ha pubblicato ed a chi scritto. Se invece mi fosse riuscito d’annoiarvi, sappiate che non s’è fatto apposta.

-Tricheco Birbante

Fare il bene è una forma di privacy

Immaginate, per un solo istante, di trovarvi catapultati nel vostro quiz Tv preferito. Intorno a voi centinaia di facce mai viste vi scrutano e giudicano mentalmente la vostra performance. Il loro sguardo perforante, misto ai riflettori puntati su di voi vi fa sentire sempre più accaldati.
Dopo qualche istante la vostra attenzione viene catturata dal conduttore. “Ansioso di essere arrivato fino all’ultima domanda?” vi chiede, con quel sorriso di chi la sa lunga.
Qualche altra frase di circostanza e poi, ecco finalmente svelata la domanda da un milione di euro.
È una domanda un po’ speciale, però. Anziché essere una domanda di conoscenza generale o una curiosità popolare, è una domanda estremamente più personale: “hai trovato un portafoglio per terra pieno di soldi: cosa fai?”
Tra le risposte ce n’è una che suona perfetta: “lo restituisco al proprietario”.
Dopo un breve silenzio, forse più per riaversi dell’emozione di essere arrivati fin lì che per indecisione, scegliete senza esitazione la risposta… facciamo che quella fosse la risposta “B”.
Avete scelto B, ed avete azzeccato, una musica trionfante inizia a suonare, luci stroboscopiche illuminano l’oscurità e coriandoli cascano dal soffitto. Il conduttore si congratula con voi “Non è stato tanto difficile, no?”
Ora cambiamo scenario.
Siete sempre voi il protagonista, ma questa volta il portafoglio, sempre naturalmente imbottito di soldi, lo trovate sul marciapiede proprio mentre state tornando a casa a piedi, stanchi ed infreddoliti dopo una lunga giornata.
Cosa fare? Lasciare il portafoglio sulla strada, considerando che magari il proprietario verrà a cercarlo più tardi? Cercare se c’è un qualche negozio nelle vicinanze e chiedere ai commessi se il portafoglio è di un cliente? Andare direttamente alla polizia? Oppure, perché no, tenerselo? In fondo chiunque possa permettersi di portare in giro così tanti soldi ne avrà sicuramente altrettanti a disposizione.
Il tempo passa, le temperature calano sempre di più e voi siete per strada, completamente da soli, a dover compiere la vostra scelta.
Ed è proprio lì che vi lascerò. Non farò compiere al vostro personaggio alcuna scelta.
La seconda situazione è decisamente la più realistica dei due esempi, ma non solo nel senso che probabilmente ci è già capitato di avere a che fare con un bene prezioso (proprio un portafoglio) smarrito e dover decidere come e se restituirlo.
La seconda situazione è più realistica nel senso che quando il destino ci pone a dover scegliere se fare o meno il bene, spesso la fa in una situazione del tutto anonima.
La scelta del bene, infatti, quasi mai comporta grandi acclamazioni o un pubblico pronto a complimentarsi con noi per la scelta appena compiuta. A volte non comporta neppure un ringraziamento e, sicuramente, scegliere il bene non è mai facile come azzeccare la risposta giusta su quattro opzioni.
Eppure, proprio per tutte questa limitazioni la scelta del bene appare, a mio avviso, incredibilmente allettante. Spesso quando si sa che si verrà premiati si compiono certe cose proprio in vista del premio, ma in questo caso il compiere una buona azione è già di per sè il premio.
Assieme alla speranza, per i più ottimisti la consapevolezza, che quel bene non potrà far altro che generare altro bene. Anche se noi magari non riusciremo mai a vederlo.

Tricheco Birbante

Prossimamente al campo scout

Chi seguisse questa rubrica da qualche tempo saprebbe che, benché non mi possa definire un esperto, provo sempre un grande piacere nel guardare e riflettere sui prodotti della settima arte, Il che non mi risulta per nulla difficile d’Estate, periodo dell’anno durante il quale escono la maggior parte delle pellicole dell’anno.
E tanti film significa naturalmente tanti, tanti trailers. Vedere un trailer a volte è divertente quanto vedere un film, perché questi ti dona una serie di piccoli elementi che, un po’ come mattoni, possono essere assemblati dalla fantasia dallo spettatore per creare il proprio film, più o meno dissimile da quello reale.
C’è sempre stato un mattone, però, a cui la mia fantasia di spettatore ha sempre faticato a trovare una posizione consona, cioè quella frase tipica dei film d’amore che fa più o meno “Quell’Estate che non potranno mai dimenticare”.
L’Estate è sempre un periodo estremamente piacevole, ma mai mi è capitato di viverne una che davvero, per utilizzare un’altra variante della frase in questione, mi rimanesse dentro.
Insomma, che fosse davvero memorabile.
Così ho continuato a vivere la mia vita senza preoccuparmene troppo, limitandomi a bollare mentalmente quella frase come una trovata pubblicitaria particolarmente efficace ma di per sé vuota.
Almeno fino a questa particolare Estate.
Quest’anno ho vissuto molte esperienze, alcune delle quali hanno avuto un forte impatto sulla mia persona, ed una di queste è stato il fatto di aver vissuto il mio primo campo da capo scout.
Un campo non semplicissimo che, per rispettare il progetto proposto dai ragazzi durante l’impresa, è stato fatto all’estero (Svizzera, ma pur sempre un altro stato), senza cambusa e con un ricambio costante tra capi e rover/scolta di servizio per riuscire a tenere fede ai diversi impegni lavorativi.
Premesse non particolarmente incoraggianti insomma, ma che non ci hanno impedito di svolgere il campo al meglio.
Abbiamo avuto degli imprevisti, certo, come quando un’improvvisa tempesta di vento ci ha quasi strappato via le tende, o dei momenti di sconforto quando i ragazzi ci hanno fatto capire che non avevano apprezzato alcune attività, ma affrontando i primi e riflettendo sui secondi siamo riusciti a portare a termine un gran bel campo, ed io credo di aver finalmente trovato quell’Estate che mi “rimarrà dentro”.
Mi rimarrà dentro perché è in questa Estate che finalmente ho visto morire la mia paura di mettermi davvero in gioco ed ho visto nascere una voglia, e soprattutto una capacità di fare che non credevo minimamente di possedere e, chissà, forse effettivamente non possedevo prima di quest’esperienza.
Questa nuova rivelazione potrebbe fare quasi paura, soprattutto considerando che è nata da una piccola frase stereotipata inventata per vendere qualche film sentimentale. Ma in fondo il marketing per funzionare davvero deve fare leva su qualcosa di vero, ed è vero che l’amore, vuoi che sia per una persona, per uno stile di vita, o anche per un ideale è un qualcosa che, quando lo scopri, ti cambia profondamente dal dentro.

 
Tricheco birbante

Generazione X: Una nuova corsa

Tutti i lettori sono pregati di rimanere seduti e di non sporgere né gambe né braccia fuori dal carrello fino alla fine della corsa. La parte che avete già affrontato potrà esservi sembrata difficile, ma vi assicuriamo che non avete ancora visto nulla.
No cari lettori non temete, non siete stati magicamente trasportati sulla giostra di un parco tematico. State semplicemente facendo esperienza dell’unica cosa esistente con più alti e bassi di un ottovolante: la vita.
Una differenza fondamentale, però, è che se sulla giostra proviamo tutti le stesse sensazioni durante le stesse parti del tracciato con la vita, invece, ognuno è indipendente. Quello che per alcuni è una curva inaspettata e spaventosa, per altri è invece un tranquillissimo rettilineo e a sua volta il rettilineo può portare ad una salita verso qualcosa di più proficuo, o precipitare verso una realtà molto spaventosa.
Eppure, ci sono alcuni momenti della vita che diverse persone vivono alla stessa maniera, e credo che quello in cui ci troviamo proprio ora tutti noi scout sia uno di questi. Certo ci sono comunque i vari modi in cui affrontiamo gli avvenimenti che ci capitano in casa, a scuola, al lavoro o con gli amici ma tutti noi, dal punto di vista scout, siamo ora in trepidante preparazione del campo estivo.
Ed io non posso fare a meno di immaginarmi questa situazione come quando l’ottovolante si incanala in una di quelle salite altissime dove il carrello dev’essere trainato verso l’alto da una catena che scatta ad ogni metro.
Un altro giorno è passato CLANG
Preparare il viaggio CLANG
Preparare il materiale CLANG
Fare lo zaino CLANG
E, dopo tutta questa preparazione, l’inevitabile discesa.
Non una discesa semplice o spensierata, ma una di quelle belle, di quelle che ti riempiono di emozioni contrastanti e che ti costringe a scoprire te stesso, e quali sono i tuoi limiti.
Personalmente, quest’anno spero di riuscire a sfruttare proprio quest’ultimo aspetto. Affrontare finalmente i miei limiti e le mie insicurezze, per poter far vivere a tutti il miglior campo estivo possibile.
E spero, in cuor mio, che la stessa cosa possa valere anche per voi.
Fine della corsa… per quest’anno.
Rincomincia un altro anno.
Tutti i lettori sono pregati di rimanere seduti e di non sporgere né gambe né braccia fuori dal carrello fino alla fine della corsa. La parte che avete già affrontato potrà esservi sembrata difficile, ma vi assicuriamo che non avete ancora visto nulla.

 

Tricheco Birbante

Chi di LEGO ferisce…

Ciao a tutti cari amici ed amiche e bentornati sulla nostra rubrica di generazione X.
Di solito quando narriamo un aneddoto, e soprattutto se vogliamo dargli una morale o trasmettere con esso un insegnamento, noi che lo raccontiamo ci troviamo nella parte dei protagonisti.
Questo serve per creare un effetto di emulazione, sperando che l’ascoltatore (o, in questo caso, il lettore) si senta spronato ad agire come abbiamo fatto noi, conscio del fatto che una persona vera, fisicamente presente davanti a lui, ha davvero compiuto le azioni che gli sono state raccontate.
Un altro motivo è che questo genere di narrazione fa sì che colui che ascolta (o legge) riesca più facilmente ad immaginarsi la situazione, e se ne senta più immerso. Quante storie dell’orrore, dove l’immedesimazione è fondamentale, iniziano con qualcosa come “alcuni ragazzi della nostra età…” se non addirittura dovete sapere che un giorno, mentre camminavo in un bosco… “!
Eppure, nonostante tutti questi trucchi narrativi, stavolta non sarò io l’eroe della nostra storia, ma piuttosto colui che sì compie molte azioni in essa, ma che alla fine ne subirà tutte le conseguenze, e soprattutto la morale.
E siccome quello che sto per raccontarvi è personale e riguarda cose di cui un po’ mi vergogno, dimenticatevi tutto quello che ho scritto prima e ripetetevi che nella storia non ci sono io, ma un amico di un amico, o che io ve la sto raccontando ma in realtà io l’ho saputa dallo zio della cugina del fabbro del terzo cugino di ottavo grado del mio idraulico.
Fatto? Bene! Iniziamo la narrazione.
Molti di voi lettori si trovano probabilmente ancora in quella fase beata della loro vita fatta di spensieratezza e pomeriggi passati a casa di amici comunemente denominata “infanzia”.
A volte sembra difficile immaginarselo ma tutti, in un modo o nell’altro, hanno avuto un’infanzia e, quella del vostro qui presente è avvenuta, più o meno, ad inizio duemila.
Era un’epoca diversa e ancora un po’ confusa, contraddittoria e talvolta insicura.
Un’epoca in cui tutti credevano che Bill Gates avesse inventato internet da solo, in cui nei film d’azione non si poteva far vedere palazzi che crollavano per via di un certo fattaccio accaduto ad inizio millennio ed in cui tutti credevano davvero, anime sciagurate, che i videofonini fossero una buona idea.
Uh? Cos’è un videofonino? Ecco, appunto.
A quell’epoca, ogniqualvolta avessi un pomeriggio libero, a prescindere che il clima fosse caldo come su Venere o freddo come su Plutone, io ero solito inforcare la mia bicicletta e pedalare fino a casa di un mio carissimo amico, dove poi avremmo giocato fino ad essere esausti.
Uno dei giochi che preferivamo erano i LEGO. Non che costruissimo chissà quali cose, la parte più divertente era mettere insieme quattro pezzi, due personaggi, e poi lasciare che tutto il resto lo facesse l’immaginazione.
Certo però che la collezione del mio amico era bella. Molto bella. Aveva tanti, ma tanti pezzi che gli invidiavo tantissimo. E così, sapete cosa ho iniziato a fare?
Incomincio a rubarglieli.
Che, detta così magari alle persone più mature un furto del genere, tra bambini, sembrerà risibile, ma io ci tengo a ricordare che, comunque la si voglia mettere, stavo rubando ad un amico. Un amico che si fidava, e stavo tradendo la sua fiducia.
E sappiamo bene dove finiscono, almeno secondo l’idea dantesca, i traditori di quelli che si fidano.
Inutile dire che mi feci sgamare praticamente subito e che il mio amico, infuriato, smise di parlarmi per settimane. Pentito, provai più volte a chiedergli scusa, ma ormai sembrava che il nostro rapporto si fosse rotto per sempre.
Eppure un giorno, mentre sono all’oratorio, ecco che questo mio amico mi si avvicina e mi dice: “ciao”.
Che belle che furono quelle parole, e quanta speranza mi diedero! Ancora oggi non so cosa abbia spinto il mio amico a perdonarmi, se solo il suo buon cuore o forse il fatto che il sangue (perché i nostri amici più cari diventano ad honorem membri della famiglia, almeno per me) sono più densi dell’acqua.
E la cosa più bella, è che siamo amici tutt’oggi.
A conclusione di questo articolo sulla misericordia, voglio solo augurarvi, quando magari vi capiterà di trovarvi in una storia come questa, di essere nella parte del mio amico.

 
Tricheco birbante

Generazione X: L’abito non fa il monaco

Ciao a tutti, cari amici ed amiche, e bentornati ancora una volta sulla nostra rubrica di “generazione X“.
Tutti noi siamo sempre in cerca di qualcosa, vuoi che siano gli occhiali, di un’occupazione oppure qualcosa di intangibile che riusciamo a visualizzare solo nella nostra mente.
Ci sono poi persone che hanno trasformato l’attività dell’andare a ricerca di qualcosa nel proprio lavoro anzi, nella propria missione di vita.
Fino al secolo scorso questi venivano chiamati “esploratori” ed è grazie al loro impegno in posti come l’Africa nera o in Sud America che sono state scoperte le cascate Victoria o la sorgente dell’infinito Rio delle Amazzoni.
Purtroppo ormai il periodo delle grandi esplorazioni, a esclusione dello spazio, è finito. Ma gli esploratori non sono del tutto scomparsi, per fortuna.
Grazie all’intervento di un simpatico uomo baffuto infatti, milioni di ragazzi in tutto il mondo continuano la gloriosa tradizione degli “esploratori”, perpetuando i loro ideali di competenza, avventura e ricerca.
Semplicemente, se un tempo si andava alla ricerca di meraviglie naturali e archeologiche disperse o sconosciute, compito dell’esploratore moderno è di andare alla ricerca di (e cercare di portare) positività e giustizia nella vita di tutti i giorni.
Due cose che, anche se forse meno fotogeniche, possono essere tanto difficili da trovare come un tempio maya in una giungla inesplorata.
Pensando che chiunque di noi non abbia difficoltà ad immedesimarsi, almeno un po’, nella descrizione sovrastante eppure, molto spesso, appesa la promessa al chiodo (o, più realisticamente, posata nell’armadio) ed indossati gli abiti civili, ecco che il solito tran-tran del mondo ci circonda e ci permea, facendoci magari dimenticare i nostri ideali del fine settimana.
Si mangiano panini fuori? Nessun problema! Ecco che ci portiamo dietro i sacchetti per la raccolta differenziata dei rifiuti e, se ci sono (e ci sono sempre) cerchiamo di pulire i rifiuti degli altri.
Senza uniforme invece, diventa un’impresa non buttare la confezione di alluminio della merendina nella carta, solo perché l’apposito contenitore non è a tiro d’occhio. Quasi come se gli abiti borghesi, oltre a coprire un po’ più di pelle, coprissero anche tutti i nostri buoni propositi. L’uniforme invece sembra il costume di Super-man: con quella indosso ci sentiamo di poter fare qualunque cosa.
Eppure, per sua stessa decisione, Super-Man non compie atti eroici solo col costume addosso.
Se ci pensiamo, Clark Kent avrebbe potuto sfruttare i suoi superpoteri per diventare un atleta ricco e famoso senza fare il minimo sforzo, invece il supereroe ha deciso di trascorrere la sua esistenza civile come giornalista del Daily Planet, convinto che il miglior modo di servire la giustizia senza indossare il costume sia di denunciare i problemi della tua città e del mondo attraverso articoli dettagliati e veritieri.
Allo stesso modo, per noi dev’essere sempre importante ricordarci che, per quanto sicuramente l’ambiente scout aiuti, il nostro comportamento non dovrebbe essere influenzato soprattutto da quello che c’è fuori, ma da quello che sentiamo dentro, da quelli che dovrebbero essere gli ideali che abbiamo deciso di seguire.
Tricheco birbante

La fabbrica incantata

Cari amici ed amiche di Generazione X, dovete sapere che in una grande metropoli del nostro paese viveva un ragazzino di nome Roberto, il cui più grande desiderio era di riuscire a vedere un albero vero. Non uno di quegli alberi brutti e grigi che si trovavano in città, a lato delle strade trafficate. Roberto voleva una foresta rigogliosa e piena di vita, come quelle che finora era riuscito a trovare solo sulle pagine di un libro sponsorizzato dal National Geographic che aveva ricevuto alcuni anni prima a Natale.
Aveva provato più volte a convincere i suoi genitori a portarlo in un posto pieno di natura, ma loro non facevano che ripetergli che per fare una cosa del genere bisognava aspettare le vacanze e, quando un soleggiato pomeriggio di primavera aveva proposto alla madre di andarci da solo, così non avrebbero dovuto prendere le ferie, lei si era limitata ad accarezzarlo, dicendogli che era ancora troppo piccolo, ed era tornata a curare i fiori che teneva sul balcone.

Ma Roberto non si sentiva affatto piccolo, così, durante un uggioso sabato pomeriggio, uscì di casa deciso a trovare quella natura che da tempo andava cercando.
Purtroppo per lui però l’impresa si rivelò ben presto più ardua del previsto. Roberto sperava che, allontanandosi dal quartiere, le condizioni dei vegetali che avevano la sfortuna di abitare in città migliorassero, ma la sua era una speranza vana. I pochi alberi che era riuscito a trovare lungo i marciapiedi erano contorti, secchi e tristi. Gli ricordavano gli alveoli di un fumatore che aveva visto sul libro di scienze. Incominciava poi a chiedersi a cosa potessero servire i cartelli con su scritto “Vietato calpestare l’erba”, chi mai si sarebbe sognato di toccare con una qualunque parte del proprio corpo quei quattro ciuffi marroni? Forse avevano ragione i suoi genitori, e lui era troppo piccolo per spingersi lontano da solo a cercare la natura. O forse non si era spinto lontano abbastanza?

Improvvisamente, gli venne un’idea! A scuola aveva imparato che spesso la natura si trovava ai limiti più esterni delle città, nelle cosiddette “cinture verdi”. Gli sarebbe bastato spingersi fino ai quartieri più lontani per trovare ciò che stava cercando! Così, senza attendere oltre, andò a cercare una fermata dove prendere il primo autobus, deciso a non scendere prima del capolinea.
Roberto aveva viaggiato per più di un’ora, ma la destinazione a cui era arrivato era ben diversa da come se l’aspettava. Al posto degli alti tronchi marroni aveva trovato vecchie ciminiere storte e sbeccate; sopra la sua testa non si trovavano centinaia di foglie verdi di forme diverse, ma solo monotone parti di tetto in decomposizione o sporche travi d’acciaio che lasciavano intravedere un cielo che andava facendosi sempre più grigio, come il suo umore.
Il ragazzo si rese conto di essere finito all’interno di una qualche fabbrica abbandonata, un posto dove era impossibile trovare quel tipo di natura lussureggiante che stava cercando. Triste e deluso per l’esito fallimentare della sua ricerca, Roberto decise di tornarsene a casa; incoraggiato anche da tuoni che, in lontananza, avvertivano dell’imminente arrivo di un violento temporale.
Ma dopo aver percorso solo pochi passi verso il cancello da cui era appena entrato, il suo udito fu colpito da un rumore insolito, come una specie di guaito, provenire da qualche parte all’interno della fabbrica. Curioso di scoprirne l’origine, e di fare qualcosa che rendesse quella giornata un po’ meno brutta, corse a cercare l’origine di quel suono.
Dopo molto girovagare per quell’edificio sconosciuto, Roberto si ritrovò davanti ad una rete di metallo oltre la quale c’era, con una delle gambe posteriori incastrata in un’apertura, un cane.

I due si osservarono brevemente. L’animale aveva un pelo straordinariamente curato, e sembrava essere fin troppo abituato alla presenza dell’umano per essere un randagio: “Che sia stato abbandonato?” pensò Roberto avvicinandosi per liberargli la zampa. Una volta riacquistata la propria libertà di movimento, l’animale schizzò via all’interno della fabbrica, lontano dallo sguardo del proprio soccorritore.
Leggermente rincuorato per avere fatto finalmente qualcosa di costruttivo, Roberto pensò che avrebbe fatto meglio a comportarsi come l’animale ed uscire da lì il prima possibile. Sarebbe bastato girarsi, camminare dritti per un po’, poi svoltare a sinistra alla colonna crollata e si sarebbe trovato subito fuori.
Oppure doveva girare a destra?
Non appena il ragazzo si rese conto d’essersi perso, avvertì una profonda sensazione di freddo partirgli dalla testa, per poi avvolgere rapidamente tutto il suo corpo. Inizialmente la etichettò come una reazione emotiva dovuta al fatto di essersi perso in un luogo sconosciuto e potenzialmente pericoloso, ma ben presto si accorse che tutto intorno a lui il terreno si stava velocemente riempiendo di piccoli cerchi di colore più scuro.

Il ragazzo corse dentro ciò che rimaneva l’edificio per cercare rifugio, ma fu tutto inutile. Il tetto era crollato praticamente ovunque, eliminando ogni possibilità di trovare un riparo dalla pioggia, che intanto si faceva sempre più forte. Disperando di trovare una qualsiasi via di fuga da quella situazione, Roberto stava per arrendersi quando, in mezzo alla fitta massa d’acqua, notò una piccola macchia scura che si dirigeva verso di lui. Inizialmente intimorito, le sue preoccupazioni svanirono quando, oramai arrivato a circa un metro di distanza, la macchia si rivelò essere il cane che aveva salvato poco fa.
I due rimasero immobili a guardarsi l’un l’altro. L’animale, in particolare, guardava Roberto come se stesse valutando se metterlo al corrente o meno di un segreto. Terminate le proprie riflessioni, il cane abbaiò, ed incominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Roberto, temendo di rimanere solo, si mise ad inseguirlo.

Il temporale si stava scatenando in tutta la sua furia; ovunque gli elementi del paesaggio erano stati sommersi da una massa d’acqua grigia che ne aveva sfumato i contorni, rendendo pressoché impossibile per Roberto capire esattamente dove quell’animale lo stesse portando, ammesso che lo stesse portando effettivamente da qualche parte. Più passava il tempo, più il ragazzo si convinceva di essersi lasciato trascinare in un inutile gioco. Eppure, nonostante questi pensieri continuava ad inseguirlo convinto, forse inconsciamente, che fosse la cosa migliore da fare.
Roberto si rese conto di aver fatto la scelta giusta quando, quasi senza accorgersene, si ritrovò in un luogo asciutto. Davanti a lui, quelli che ad una prima occhiata erano i resti un una colonna di cemento armato, un tempo dipinta di un giallo ormai sbiadito; dietro, un muro di acqua grigia che non accennava a diminuire di intensità; sopra, ad almeno un paio di metri d’altezza, un soffitto dall’aspetto strano, la cui esatta composizione era reso ancora più misterioso dalla perenne ombra in cui era bloccato quell’angolo asciutto.
Dopo essersi asciugato il pelo con una robusta scrollata, il cane si avvicinò al ragazzo che, dopo essersi seduto a terra, incominciò ad accarezzarlo.

Dopo quella che gli era parsa un’eternità, le nuvole di pioggia si dispersero, lasciando libero il sole di tornare ad illuminare tutto coi suoi caldi raggi. Roberto approfittò di quel repentino cambio di clima per uscire dal proprio rifugio e cercare di asciugarsi un po’ i vestiti ma, non appena entrò di nuovo in contatto con l’ambiente esterno, si rese conto di una cosa spettacolare.
Il soffitto che fino a poco tempo prima non era stato in grado di identificare era in realtà la foltissima chioma di un albero, il cui tronco era cresciuto fino quasi ad inglobare la colonna di cemento sul quale era appoggiato. Inoltre tutto intorno a lui numerose piante d’edera avevano reso di un acceso colore verde le vecchie pareti della fabbrica. Scintillanti gocce di pioggia ancora riposavano sulle foglie, come tante piccolissime stelle su di un cielo color menta. Le pozzanghere poi avevano trattenuto dentro di loro tutti i colori dell’arcobaleno, riuscendo a dare vivacità addirittura alla vecchia strada in disuso. Euforico per essere finalmente riuscito a portare a termine la sua missione, Roberto si chinò di nuovo ad accarezzare il cane che ormai aveva incominciato a seguirlo: «Sei stato fantastico!» disse. «Non avrei mai trovato tutto questo se non fosse stato per te, grazie…» e qui si interruppe. Come si chiamava il suo nuovo amico sprovvisto di medaglietta? Visto che ormai sembravano destinati a stare insieme, gli sembrava giusto dargli un nome vero e proprio, ma quale? Dopo una breve riflessione, Roberto ebbe una bella idea. Le qualità che il suo nuovo amico aveva dimostrato di possedere erano state intraprendenza e conoscenza del territorio e, almeno secondo quanto scritto nel suo libro del National Geographic, quelle erano le caratteristiche che descrivevano perfettamente un preciso tipo di persona: «D’ora in poi ti chiamerai “Esploratore”, che ne dici?»
Esploratore abbaiò in segno d’assenso.

Due settimane più tardi, Roberto uscì sul balcone per controllare lo stato del piccolo germoglio che aveva piantato qualche tempo addietro. Era da un po’ che aveva iniziato anche lui, come sua mamma, a coltivare l’hobby del giardinaggio. Del resto, grazie alla sua avventura, aveva capito che la bellezza della natura poteva sbocciare ovunque, anche in una città grande ed affollata come la sua.
E poi, da quando era quasi scappato di casa, i suoi lo avevano messo in punizione, proibendogli di uscire per almeno un mese, quindi si era dovuto inventare qualcosa che gli permettesse di rimanere in contatto con la natura fino a quando lui ed Esploratore non sarebbero partiti per la loro prossima avventura.

Tricheco birbante

Fantasia anno 0

Ciao a tutti, cari amici ed amiche, e benvenuti ancora una volta nella nostra rubrica di Generazione X.
In vista della mia imminente Partenza, i miei capi Clan mi hanno consigliato di leggere “La strada verso il successo” scritto nientemeno che da Baden-Powell. Una lettura che, se mi è permesso, consiglio vivamente a tutti; non solo il nostro caro B.-P. riesce ad immaginarsi situazioni che descrivono con grande precisione ciò che deve affrontare un giovane ragazzo (o ragazza) in quel difficile momento di passaggio dall’adolescenza all’età adulta, ma dispensa anche una buona quantità di ottimi consigli, mai banali e sempre basati sulla sua stessa esperienza di vita.

Tra i vari consigli ce n’è uno particolarmente anglosassone che suggerisce di pensare, prima di agire, a cosa farebbe Gesù se si trovasse al nostro posto.
Questa suona come un’idea particolarmente buona se si tiene in conto quanto Gesù sia sempre stato capace di reagire alle situazioni con tranquillità e saggezza, anziché lasciarsi controllare da emozioni particolarmente umane quali la rabbia o il rancore.
Ad esempio quando i suoi apostoli lo deludevano, non comprendendo i suoi insegnamenti, lui li rimproverava docilmente e subito si rispiegava; quando i farisei gli urlavano in strada che era un bestemmiatore, lui si limitava a rispondere con frasi brevi e concise, spiegando le sue azioni; quando scoprì i mercanti a cambiare denaro nel tempio, si è arrabbiato tantissimo ed ha incominciato a ribaltare i loro tavoli spargendone il contenuto per terr…
[Rumore di puntina che slitta sul disco]
Oh… interessante, anche a Gesù è capitato di perdere la testa qualche volta.
Ma la cosa non deve stupirci più di tanto, in fondo anche Gesù era almeno in parte umano, e si sa quanto questi siano facilmente pronti a lasciarsi dominare dalle loro emozioni.

Ma quindi è davvero così impossibile riuscire a controllare le proprie emozioni? Se neanche il figlio di Dio riesce sempre a mantenere un rigido controllo di sé, come è possibile che ci riesca io?
B.-P. a questo proposito dà un altro adeguato consiglio. Conscio di quanto l’autodeterminazione possa arrivare solo fino ad un certo punto, il fondatore dello scautismo consiglia un massiccio uso di fantasia!
Prima di riuscire a superare fisicamente un ostacolo, bisogna convincersi di essere in grado di superarlo ma, prima ancora, bisogna riuscire ad immaginare un modo per superarlo. La fantasia è quindi alla base di ogni azione, e un componente fondamentale per affrontare qualunque problema.

Insomma, se vogliamo riuscire davvero a capire cosa avrebbe fatto Gesù al nostro posto, prima di prendere una decisione importante, consiglio vivamente di immaginarsi innanzitutto il Nazareno nella stessa situazione e, per quanto riguarda quel piccolo incidente coi cambiavaluta, mi viene da pensare che la colpa sia sempre da imputare ad una mancanza d’immaginazione da parte del salvatore.
Probabilmente, vedendo gente che infrangeva in maniera tanto palese indicazioni come il fatto che non si dovrebbe lodare un dio (il denaro) in un luogo consacrato ad un altro dio (beh… Dio) Gesù non è riuscito ad immaginarsi un modo ancora più chiaro per spiegare qual era la cosa giusta da fare e così la sua mente ha fatto Kaputt.

Ma queste sono solo suggestioni, l’unica cosa di cui posso ritenermi sicuro è che la fantasia rimane una delle armi più potenti che l’uomo abbia mai avuto a sua disposizione, soprattutto contro se stesso.

Tricheco birbante

Affari da Scout

Ciao a tutti cari amici ed amiche, e benvenuti ancora una volta sulla nostra rubrica di Generazione X.
Seguendo con attenzione le notizie che provengono dal mondo capita spesso di imbattersi in tantissimi nomi di politici, imprenditori e dirigenti estremamente potenti che sembrano passare l’interezza delle loro giornate a non far altro che correre da una matassa di problemi all’altra, cercando di sbrogliarle.
La situazione, già solo così descritta, pare decisamente poco appetibile da gestire. Eppure queste persone passano anni della loro vita a prepararsi: a studiare, a far carriera, col solo scopo di poter un giorno districarsi tra decine di situazioni precarie, per cercare di bilanciarle a favore della loro fazione o di loro stessi.
Per riuscire a fare questo serve indubbiamente una persona dotata di determinate capacità e, almeno per quanto riguarda il dirigente o uomo d’affari d’alto livello, un’idea di base dei tratti distintivi che dovrebbe avere ce la può dare la fiction, soprattutto cinematografica.

Tralasciando gli eccessi tipici della categoria, anche quelli spesso immortalati su pellicola, di solito l’uomo d’affari di successo dei film ha tra le sue caratteristiche l’essere scaltro, il sapere valutare con arguzia la situazione che gli si presenta davanti, saper riconoscere determinati segnali quando gli si presentano e riuscire a lavorare in squadra con altri dirigenti per raggiungere un obbiettivo comune.
Nei film spesso queste caratteristiche sono già presenti naturalmente nel personaggio, e questi passerà il corso del film ad affinarle o le utilizzerà per sbaragliare qualche dirigente avversario. Facile facile.

Nella realtà però queste caratteristiche, pur essendo davvero indispensabili per un futuro leader, spesso non sono innate in chi lo vuole diventare, e quasi mai sono del tutto sviluppate anche in chi lo è diventato.
Proprio per questo, quando un “mega-capo galattico” d’azienda decide di promuovere alcuni dei suoi a dirigenti, spesso li iscrive prima a corsi specializzati per coltivare questo tipo di capacità.
In cosa consistono questi corsi?
Campeggio! E anche alcune situazioni più appropriate ad un “corso di sopravvivenza” (ma chiunque abbia affrontato un Hike, od un’intera Route sotto la pioggia, se la ride delle condizioni da “corso di sopravvivenza”). Tutte queste attività, finalizzate a far sorgere nell’individuo arguzia, prontezza di riflessi, capacità di adattamento e disponibilità a lavorare in squadra, occupano inoltre un arco di tempo ampio circa un mese.

Cosa dovremmo dire noi, allora, che dedichiamo a queste attività anni interi della nostra vita?
Secondo me, dovremmo dire di essere particolarmente fortunati per essere rimasti così a lungo immersi in questo meraviglioso stile educativo, dal quale abbiamo appreso capacità che, se ben sfruttate, ci permetteranno di risolvere potenzialmente ogni tipo di situazione complessa.
In questo articolo ho voluto usare come esempio di luogo dove attuare questo tipo di capacità un mondo che ben presto farà parte del regno della fantascienza: quello del lavoro. Ma questo non vuol dire che questo tipo di capacità non siano utilizzabili nei campi più svariati, anzi!

L’educazione scout ci ha fatto dono di queste capacità proprio affinché noi le utilizzassimo negli ambiti più disparati anche e soprattutto al di fuori dell’ambito scout, fin nelle sfaccettature più piccole della nostra esistenza.
L’importante è essere pronti a capire quando, e come, una situazione necessita il nostro intervento. A quel punto, nulla ci impedirà di sfruttare le nostre capacità per renderci utili.
Meglio ancora se non solo nei confronti di noi stessi o di una determinata fazione, ma nei riguardi del mondo intero.

Tricheco Birbante