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Dichiarazioni di pace: Scautismo e fratellanza mondiale

Liberamente tratto dal libro: «La schiera bella, vigorosa e promettente… Il secolo scout a Busto Arsizio» di Marco Torretta

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Lo scoutismo, specialmente dalle sue origini centenarie (nacque nel 1907), ha dato talvolta un’immagine ingannevole sul rapporto tra il metodo educativo ed il militarismo. Il metodo scout, sebbene fondato da un generale (Lord Robert Baden Powell) e basato anche sul patriottismo, la salute fisica e la disciplina, è in realtà un principio opposto al militarismo, poiché tende a trasmettere ai giovani esempi e non ordini, e mira all’autoeducazione, controllata da Capi-educatori: “guida da te la tua canoa” è una delle frasi allegoriche, ovvero ogni giovane deve scegliere, nella vita, le azioni da intraprendere e accettarne le conseguenze, senza affidarsi totalmente agli altri); quindi scoprire e sviluppare al meglio il proprio carattere, per essere un “buon cittadino”: la buona azione, il servizio verso gli altri, la spiritualità presente in ogni Fede, ecc.

Non è un caso che il primissimo esperimento scout in Italia, il 26 giugno del 1910 ai Bagni di Lucca, dette vita ai “Boy Scout della Pace”, che avevano per distintivo un giglio bianco in campo azzurro; l’intento pacifista di Sir Francis Vane, che ne fu l’iniziatore, era ancora più significativo proprio perché non erano ancora scoppiate le due guerre mondiali…
Nel 1911 Baden Powell scriveva: «mi sembra che prima che si riesca ad abolire gli armamenti, prima di poter fare promesse a mezzo di trattati, prima di costruire palazzi dove possano sedere i delegati per la pace, il primo passo sia quello di abituare le giovani generazioni, in ogni nazione, a lasciarsi guidare in tutte le cose da un assoluto senso di giustizia. Quando gli uomini avessero questo senso di giustizia come un istinto nella loro condotta in ogni questione della vita, così da guardare imparzialmente ogni problema da entrambi i punti di vista prima di sposarne uno, allora al sorgere di una crisi tra due nazioni essi sarebbero spontaneamente più pronti a riconoscere ciò che è giusto e ad adottare una soluzione pacifica; cosa questa che rimarrà impossibile finché la loro mentalità sarà abituata a considerare il ricorso alla guerra come la sola soluzione».

In alcuni casi ci fu qualche tentativo di strumentalizzazione all’interno dello scoutismo, che venne spesso visto come un’associazione paramilitare o premilitare: a Busto Arsizio come in tutta Italia, dietro sollecitazione del Ministero dell’Istruzione, la sottosezione del CNGEI (Corpo Nazionale Giovani Esploratori Italiani) nacque e venne patrocinata il 20 maggio 1915, quattro giorni prima della dichiarazione di guerra all’Austria-Ungheria; anche se i “venti di guerra” erano diventati ormai una presenza inesorabile…
La successiva nascita, nel 1917, del gruppo bustese dell’ASCI (Associazione Scout Cattolici Italiani) veicolò un atteggiamento meno nazionalista, anche se improntato ad un patriottismo che vedeva nella guerra una inevitabile difesa della Patria.

Dopo l’esperienza terrificante della “Grande Guerra” ci fu una tendenza, in campo internazionale, decisamente orientata verso il mantenimento della pace, da cui la nascita della “Società delle Nazioni” (1919).
Se a ciò aggiungiamo che il Movimento raggiunse, in breve tempo, quasi tutti i paesi del mondo e che già nel 1920 si organizzò, in Gran Bretagna, il primo Jamboree, cioè un campo scout aperto a tutte le nazioni, razze e religioni del pianeta, si può intuire come lo scoutismo ebbe un ruolo fondamentale nella costruzione di una fratellanza mondiale (nonostante gli ovvii e inevitabili fallimenti delle politiche estere e dei totalitarismi della prima metà del novecento).
B.P. scrive nel 1925: «l’addestramento e la disciplina militare sono esattamente l’opposto di quello che insegniamo nel Movimento scout. Essi tendono a produrre macchine invece di individui, a sostituire una vernice di obbedienza alla forza del carattere».

Nella stessa epoca dell’avvento dei regimi totalitari, quando lo scautismo viene abolito in Italia (1928), in Germania, e in tutti quei paesi in cui il governo si trova in contrasto con le idee di pace e fratellanza che il movimento va diffondendo, BP scrive: «Noi dovremmo inculcare nei nostri ragazzi un patriottismo che sia al di sopra di quel sentimento ristretto che generalmente ci rinchiude nella nostra nazione ed ispira gelosie ed inimicizie verso le altre. Il nostro patriottismo è di un genere più ampio e più nobile, che riconosce la giustizia e la ragionevolezza delle richieste altrui e porta la nostra nazione al riconoscimento ed alla fraternità con fraternità con gli altri popoli del mondo».

Sappiamo, da un libro custodito a Busto Arsizio, che l’ “Aquila Randagia” Mons. Enrico Violi acquistò, in regime di clandestinità, il bellissimo libro in lingua inglese “The World Jamboree 1929”, campo internazionale scout che si tenne ad Arrowe Park in Inghilterra, e che riporta in una pagina questa didascalia:

SQUADRIGLIE DI PACE
La “Lega delle Nazioni” dice, rivolta agli scout: “dicono che non ho
armi, ma perché dovrei volerne, con questi alleati?”
The World Jamboree, 1929 – Arrowe Park

Sempre Baden Powell, nel 1932, scriveva: «Non è l’abolizione degli eserciti che farà scomparire la guerra, così come non è abolendo la polizia che si fa scomparire la criminalità. Bisogna eliminare la causa della guerra: gli eserciti sono piuttosto l’effetto, cioè sono il prodotto della paura e dell’istinto combattivo. E questo è il compito dell’educazione.»
Più oltre nel 1937, una grande speranza: «Anche se l’aspetto più spettacolare del nostro lavoro, i Jamboree e le crociere di pace dei tempi più felici rimane sospeso per la durata della guerra, vi è sempre l¹altra più importante parte del nostro programma, che consiste nel dare ai nostri ragazzi, senza clamore e metodicamente, con l¹esempio e con la pratica, l’abitudine alla buona volontà, tolleranza e comprensione verso gli altri. Queste qualità, se radicate nei nostri scout di oggi, renderanno in futuro la guerra un fenomeno inconcepibile. Perciò non scoraggiatevi. Non c’è mai stato, nel mondo, tanto bisogno di scout in gamba come oggi: e coloro di voi che cooperano alla loro formazione possono essere sicuri di star validamente contribuendo all’avvenire del mondo.»

Il clima internazionale divenne sempre più cupo e inquietante, tanto che B.P. scrisse, nell’imminenza del secondo conflitto mondiale: “Fra poco voi giovani sarete divisi e dovrete uccidervi l’un l’altro, ma quando la guerra sarà finita, ricordatevi, toccherà a voi essere i costruttori della pace”. Baden Powell – Jamboree di Vogelensang – Olanda, 1937

Una volta che la nuova guerra divenne realtà: (nel gennaio 1940) un’idea che era anche di grande attualità: «Nessuno sa quale forma prenderà la pace. Unioni federali, unioni economiche, una Società delle Nazioni risuscitata, gli Stati Uniti d’Europa e varie altre proposte sono sul tappeto. Ma una cosa è essenziale per una pace generale e permanente, di qualsiasi forma: e cioè una totale trasformazione di spirito fra i popoli, una trasformazione nel senso di una più intima reciproca comprensione, di un soggiogamento dei pregiudizi nazionali, e la capacità di guardare con gli occhi degli altri in amichevole simpatia.»

E gli scout in guerra cosa fecero? Ecco alcuni esempi toccanti della 2^ Guerra Mondiale che videro scout di opposti schieramenti salvarsi la vita, come nel caso di un soldato italiano. «Nordafrica: alcuni soldati italiani stavano per essere fucilati da un plotone britannico; l’ufficiale di Sua Maestà vide un Italiano che portava la cintura scout, fermò improvvisamente l’ordine di far fuoco e si avvicinò all’Italiano, seppe che era un ex scout di Roma. L’Inglese era stato scout a Londra, l’Italiano ebbe così salva la vita… »

Persino nella clandestinità alla quale erano costretti gli (ex) scout italiani, ci furono slanci di altruismo non violento: le “Aquile Randagie” aiutarono perseguitati ed ebrei a fuggire in Svizzera; uno di quei ragazzi perse la vita per salvare un perseguitato.

A Busto Arsizio abbiamo la testimonianza dello scout/partigiano Ugo Chierichetti che ricorda l’esperienza di un servizio verso i bisognosi, proprio durante l’occupazione nazifascista: «…Nell’anno 1944, un giovane sacerdote Don Romano Cesana, nuovo coadiutore dell’oratorio della parrocchia di San Michele, iniziava a raccogliere dei giovani non praticanti l’oratorio per organizzarli in un piccolo gruppo clandestino di Scout, con attività prevalentemente di aiuto volontario ai più deboli. A Busto erano giunti molti sfollati per i bombardamenti aerei su Milano e altre città, e ci si trovava in piena carestia. Gli alimenti erano insufficientemente razionati con tessere annonarie personali, e imperava il mercato nero per chi poteva, mancava legna per il riscaldamento, molti anziani, a causa della partenza in guerra di tutti gli uomini validi, erano abbandonati a se stessi. Per costoro ci si diede da fare, come nostra B.A. quotidiana [Buona Azione - N. d. A.], nel limite del possibile e nel silenzio più assoluto.»
Alcuni di loro invece, per forza di cose, parteciparono agli eventi della Resistenza nelle modalità belliche tradizionali, e per questo si autodefinirono i “Ribelli per Amore”, ovvero ragazzi e uomini che avevano imbracciato forzatamente le armi per amore della Libertà e nonostante i principi cristiani a cui si ispiravano le loro formazioni paramilitari.

Nel dopoguerra alcuni rover (scout over 16), anche bustesi, si interessarono al tema dell’obiezione di coscienza, allora non ammessa, incontrando, nel 1964, personalità politiche come Lidia Menapace.
Negli anni sessanta si terranno i processi agli obiettori cattolici. A questo si aggiunsero le forti prese di posizione in favore dell’obiezione di coscienza da parte di padre Ernesto Balducci e di don Lorenzo Milani che trattò l’argomento nella sua opera “L’Obbedienza non è più una virtù” subendo anche un processo.
Nel 1970 viene presentata in Parlamento, una proposta di legge per legalizzare l’obiezione di coscienza. La proposta viene approvata dal Parlamento due anni dopo, con l’istituzione del servizio civile obbligatorio per chi rifiuta di prestare il servizio militare.
L’AGESCI (Associazione Guide e Scout Cattolici Italiani) fece successivamente una chiara scelta preferenziale per il servizio civile.

Nel 2001, dopo la tragedia delle “Torri Gemelle”, questo comunicato ufficiale dell’AGESCI: Combatteremo fino all’ultimo alito della nostra vita contro la legge del più forte usando quella dell’amore. Contro chi vuole strapparci dalla “normalità” per gettarci nella fossa del terrore. Progettando il domani per noi e per i nostri figli. Rispondendo col rimetterci in cammino, senza dimenticare che il nostro obiettivo è concludere il nostro pellegrinaggio su questa terra, avendo raccontato e testimoniato concretamente l’amore che Gesù ci ha fatto sperimentare in vita. Dio ci ha fatto il grande dono d’incontrare gente che lo chiama col nome di Allah, Jhavè, Buddha, a fianco della quale abbiamo lavorato, riso, sofferto e pianto e scoperto la grande verità della storia:
L’AMORE DI DIO non ha nome, razza, lingua, religione, politica, confine o nazione. E per non dimenticare in ogni regione italiana è stata organizzata una veglia di preghiera la sera del 4 ottobre, Festa di S. Francesco, Santo della Pace.
Grazia Bellini, Edoardo Patriarca Presidenti AGESCI Mons. Diego Coletti Assistente Ecclesiastico Nazionale

Prendendo spunto dal fatto che il Gruppo AGESCI del Busto Arsizio 1° aveva aderito ai valori di educazione alla pace ed alla fratellanza tra i popoli del Coordinamento Cittadino per la Pace, vogliamo evidenziare un triste evento che colpì lo scoutismo italiano nel 2003; il servizio reso da alcuni scout-militari caduti a Nassirya va interpretato come una vera forma di patriottismo, e non come una sterile manifestazione di pacifismo indirizzato contro le nostre forze militari; infatti i seguenti Italiani, morti mentre compivano un’operazione di pace, avevano un passato scout:
- Il Vice Brigadiere dei Carabinieri Ivan Ghitti (caduto a Nassirya, e rover del Milano 24);
- il civile Marco Beci della “Cooperazione Italiana” (caduto a Nassirya);
- il dirigente della Polizia di Stato Nicola Calipari (scout dell’ASCI a Reggio Calabria);
Lo scoutismo italiano fu addolorato per queste morti ingiuste, ma non stupito perché, se è ancora attuale leggere le prime righe di “Scoutismo per Ragazzi”, dove B.-P. scrive che: “Immagino che ogni ragazzo desideri rendersi utile alla sua Patria in un modo o nell’altro. C’è un mezzo con cui può farlo facilmente, ed è quello di diventare un Esploratore…” “…oltre agli esploratori militari ci sono anche altri tipi di esploratori, uomini che in tempo di pace compiono un lavoro che richiede lo stesso genere di ardimento e di spirito d’iniziativa… sono uomini abituati a tenere in pugno la propria vita e a rischiarla senza esitare, se rischiarla significa servire la Patria. …E questo fanno semplicemente perché è loro dovere.” Robert Baden Powell – 1907.
Allora il posto di un Esploratore è sempre avanti agli altri, specialmente quando si tratta di rendere un servizio.

Sabato 14 ottobre “accoglienza”! Ma chi sono gli scout?

Questo sabato sarà un giorno speciale dedicato a quanti volessero iniziare la loro avventura scout (qui tutti i dettagli). Per raccontarvi, in modo un po’ insolito, chi sono e cosa fanno questi scout vi proponiamo uno scritto di Pierluigi Biondi:
 
Inchiodati alla fulminante ma ingenerosa definizione che di loro diede George Bernard Shaw – “bambini vestiti da cretini guidati da un cretino vestito da bambino” – gli scout, oltre che al sarcasmo dei più, sono sopravvissuti a due guerre mondiali, al boom dei ’60, all’impegno dei ’70, al riflusso degli ’80, alla prima e alla seconda repubblica, al passaggio del millennio e alla crisi del sistema, al crollo dei miti e alla new age. Come la Dc o il Festival di Sanremo, di cui difficilmente si trovava qualcuno disposto pubblicamente a parlarne bene ma che poi – nel segreto dell’urna e dei dati Auditel – mietevano consensi, così gli scout hanno risposto alle ironie e alle raffigurazioni caricaturali riempiendo le loro sedi di lupetti, coccinelle, esploratori, guide e rover.
Le stime parlano chiaro: nei cento anni e passa di attività, almeno mezzo miliardo di uomini e donne hanno pronunciato la promessa scout, impegnandosi a compiere il proprio dovere “verso Dio, la Patria e la Famiglia”, ad “agire sempre con disinteresse e lealtà” e ad “aiutare gli altri in ogni circostanza”, dando sempre “il meglio di sé”.
Tra loro molti i nomi celebri: dai coniugi Clinton al colonnello Muammar Gheddafi, dall’astronauta Neil Armstrong all’icona pop-rock Jim Morrison e – per restare in Italia – i politici Ignazio La Russa e Giovanna Melandri, i cantanti Gino Paoli e Jovanotti, il capo della Protezione civile Guido Bertolaso e il dirigente del Sismi Nicola Calipari, morto a Baghdad durante la liberazione della giornalista del Manifesto Giuliana Sgrena. Anche Georges Prosper Remi – in arte Hergé, creatore di Tintin (foto a sinistra) – ha calzato il bizzarro cappello a larghe tese e un suo murale, dipinto sul corridoio di una scuola dismessa in cui sono riprodotti degli scout, è diventato un oggetto di culto per gli appassionati delle opere del disegnatore belga.
L’atto di nascita dello scoutismo è del 1907, quando l’ufficiale dell’esercito inglese Lord Robert Baden Powell portò una ventina di giovanotti nell’isola di Brownsea, nella Manica, per dar vita al primo campo – jamboree in gergo scout – della storia. L’idea, a B. P. (come affettuosamente viene chiamato dai suoi seguaci), venne dopo aver verificato il successo che il manuale Aids to Scouting – scritto originariamente per i suoi soldati – aveva tra i ragazzi, a tal punto da essere adottato come libro di testo nelle scuole. Da lì la pubblicazione, nei primi mesi del 1908, del manuale di formazione Scouting for boys che diventerà la Bibbia di intere generazioni con i pantaloncini corti e il fazzolettone al collo.
Alla figura del fondatore, recentemente, la Lizard Edizioni – la casa editrice fondata da Hugo Pratt – ha dedicato il volume a fumetti di Ivo Milazzo e Paolo Fizzarotti intitolato Impeesa (p. 72 a colori, € 19,50) come il soprannome con cui gli zulù africani chiamavano Baden Powell.
Attualmente gli scout presenti nel mondo sono quaranta milioni, di cui almeno duecentomila iscritti in una delle tre associazioni della penisola: Agesci, Fse e Cngei, le prime due di ispirazione cattolica, la terza laica. Un esercito che marcia zaino in spalla e sacco a pelo, ordinato in squadriglia o in pattuglia, a far esperienza di vita comunitaria all’aria aperta. Non esistono problemi insormontabili: un fuoco da accendere in condizioni precarie, un accampamento da allestire all’improvviso o un ferito da curare, per ogni cosa c’è una soluzione. Una solida formazione, tanta buona volontà e inesauribile inventiva, questo è il segreto.
Pronti a dare una mano dove serve, gli scout si distinguono per la loro concezione di una solidarietà fatta “di prossimità” (quasi una versione attualizzata del comandamento evangelico “ama il prossimo tuo come te stesso”), lontana anni luce dal professionismo del buonismo internazionale che corre in soccorso dei terremotati dell’ultimo anfratto del pianeta o che fa barricate contro l’estinzione di un rarissimo insetto della foresta amazzonica ma che si accorge dell’anziana dirimpettaia morta da una settimana solamente all’arrivo dei vigili del fuoco. Abituati al rispetto e alla fatica, tipi così difficilmente diventano bulli: ecco perché, in occasioni quali il concerto di qualche giorno fa di Fiorello e Baglioni contro la violenza degli adolescenti nei confronti dei loro coetanei, è più facile scoprirli dall’altra parte delle transenne a distribuire acqua o a prestare soccorso piuttosto che ad agitarsi a ritmo di musica. Così come si possono trovare, durante i sabati sera degli happy hour portati fino al mattino e delle corse in automobile, a spiegare ai ventenni i rischi dell’alcool o dentro qualche carcere a fare volontariato tra i detenuti o a dare assistenza tra i pellegrini del Giubileo romano. Oltre che prendersi cura degli altri, però, sono anche capaci di pensare a se stessi, sviluppando una spiccata propensione all’adattamento nelle situazioni più difficili e alla pianificazione del lavoro di squadra. Non è un caso, quindi, che l’Università Bocconi mandi i suoi allievi a studiare il modello scout a Ginevra o che l’agenzia di lavoro interinale Adecco suggerisca ai candidati di inserire nel curriculum le esperienze da esploratore o da rover. Perché una volta scout lo si è per sempre, come recita il loro motto: semel scout, semper scout.
Ha detto bene Edoardo Missoni (foto a sinistra), segretario generale uscente dell’Organizzazione Mondiale del Movimento Scout: «Lo scoutismo è l’unica scuola di management al mondo ad avere 100 anni di tradizione, e l’unica che si può frequentare a partire dagli 8 anni di età».
E allora perché di loro rimane lo stereotipo del “fregnone”, quello – per intenderci – descritto con l’attempato Nuvolone da Carlo Verdone nel suo ultimo film Grande, grosso e… Verdone? Chissà se per la loro somiglianza a dei novelli Balilla (analogia fin troppo spiccata se il regime decise che di milizia giovanile ne bastava una e decretò lo scioglimento del movimento scout e lo condannò alla clandestinità del periodo detto della “Giungla silente”). Oppure per la rappresentazione che Clark Barks ne diede, a partire dal 1951, con le Giovani Marmotte disneyniane interpretate da Qui, Quo e Qua – nipotini dello sfaccendato e sfigato zio Paperino – che si mostrano tronfi sull’attenti petto-in-fuori-pancia-in-dentro al cospetto del loro capo, quel trombone del Gran Mogol, smaniosi di ricevere la milionesima medaglia per l’ennesima prova di capacità e di coraggio. O forse ancora, la risposta potrebbe fornirla lo storico John Springhall che, in un articolo pubblicato nel 1972 sulla rivista International Review of Social History, così definiva – con pomposissima retorica progressista – il movimento scout: «Una versione personalizzata (del fondatore Baden Powell, ndr) di socio-imperialismo, onnipresente darwinismo sociale e culto edoardiano dell’efficienza nazionale».
Una macchietta, in pratica. E sì, perché le uniformi, l’organizzazione gerarchica, la disciplina, la “buona azione quotidiana” – da che mondo è mondo – stimolano lo sghignazzo negli invidiosi che camuffano il proprio conformismo, ideale o sociale che sia, con il ribellismo dei costumi. Gli stessi che non ci spiegano perché debba apparire più ridicolo un ragazzino beneducato con i pantaloni alla zuava che dorme in tenda piuttosto che un adulto (?) con le treccine rasta che si sballa rinchiuso dentro un centro sociale.
 
Pierluigi Biondi (L’Aquila, 1974), giornalista, scrive per il quotidiano Secolo d’Italia e la rivista Senzatitolo, trimestrale di teatro e cultura. Ha collaborato, in qualità di editor, al libro Tre punti e una linea. La storia attraverso la radio (ed. Teatroimmagine, 2007). Dal 2004 è sindaco di Villa Sant’Angelo (Aq).
 
L’articolo è stato ripubblicato dall’originale sull’archivio-blog di Roberto Alfatti Appetiti

Un secolo Scout a Busto Arsizio

unsecoloscoutPalco L’incontro avvenuto lo scorso 27 Febbraio tra i gruppi scout Busto Arsizio 1,3,5 e MASCI è stata una meravigliosa occasione per unirsi, confrontarsi e capire quanto bene si è riusciti a fare per la città in questi ultimi cento anni.
Il flash mob, organizzato con il Comune, ha visto la presenza di molte persone, tra capi e ragazzi che hanno voluto giocosamente invadere piazza San Michele come simbolo della fratellanza che esiste tra i vari gruppi della città, nonché una vetrina per annunciare ufficialmente una serie di attività che andranno a svolgersi nell’arco di tutto l’anno sul territorio cittadino.
A sottolineare la vicinanza del comune ai diversi movimenti scout c’è stata la presenza di diverse figure istituzionali, tra cui il sindaco Emanuele Antonelli ed il vicesindaco Stefano Ferrario, anche lui scout.unsecoloscoutPiazza
Momento particolarmente bello è stata la Messa tenutasi in San Michele, chiesa che da sempre accoglie con gioia gli scout della città, che sia per una semplice messa oppure, come in questa occasione, per terminare una giornata speciale partecipando tutti assieme alla funzione liturgica.
Ed è stato proprio lì, spartendosi i diversi compiti tra i vari gruppi, ma agendo tutti assieme sotto il cappello della messa ed intonando le canzoni come un’unica voce, che secondo me le diverse realtà scoutistiche della città hanno dato il meglio di sé. Dimostrando di saper mettere da parte le differenze e poter lavorare come un unico uomo non solo per poter fare onore allo scautismo durante l’impegnativo anno che verrà, pieno di manifestazioni, ma anche per i prossimi cento.

QUI le foto dell’evento
Filippo Mairani

Quattro chiacchiere con Carlo Valentini

Sono già cento!
Ricordate? Lo abbiamo urlato insieme a tutti i gruppi scout della città lo scorso B.P. Day. Ebbene, sì. Se nel 2007 abbiamo commemorato i cento anni dalla fondazione del movimento, oggi a dieci anni di distanza, viviamo l’anno di un nuovo centenario: quello dello scoutismo a Busto Arsizio.
A onor del vero, i primi scout “conquistarono” la città 102 anni fa, nel 1915, con la nascita dei primi gruppi GEI (Giovani Esploratori Italiani), voluti da un comitato promotore formato da diversi dirigenti di associazioni bustocche. Solo successivamente, nel 1917, appunto, si assiste alla formazione del primo gruppo cattolico, che è l’evento che festeggiamo; l’inizio della nostra storia.
L’idea di un Lord inglese che si fa strada tra le vie di Busto. Cosa ne è stato e cosa ne è oggi?
CarloValentini2Facciamo una chiacchierata con Carlo Valentini, storico capo gruppo del Busto 1, che di questi 100 anni, ne ha conosciuti una buona fetta.
Carlo si sta spendendo tantissimo per questo centenario. Molte altre informazioni le potete trovare sul sito unsecoloscout.it

Ho fatto la promessa da lupetto nel 1949, a 10 anni e nel 1951 ho pronunciato la mia promessa di esploratore. I miei genitori non conoscevano il mondo scout; sono stati consigliati dal fratello di mio padre, uno zio prete, che aveva familiarità con il movimento. Scoprire che mio nonno, Carlo Valentini, fu parte del comitato promotore del 1915 – era dirigente di un’associazione di ginnastica – è stata una grande sorpresa. Nessuno lo sapeva, ma mi piace pensare che ci sia stata una sorta di predestinazione.

Carlo (al quale diamo del “tu”, come si conviene tra scout), può vantare un lungo percorso nell’associazione, costellato da non poche imprese e traguardi.

Nel ’53 – eravamo 6 esploratori e un rover – decidemmo di fare un campo mobile: “Colico a pè” (Colico a piedi). Partendo da Busto, raggiungemmo a piedi il campo scuola di Colico. Fu un’impresa memorabile. Oggi coraggiosa, all’epoca… eroica!
Nel ’55 partecipai al Jamboree, in Canada (l’ottavo world Jamboree), il solo a cui ho partecipato.
Appassionandomi al servizio, divenni responsabile per il reparto quando ancora ero un rover. Successivamente sono stato capo clan e capo reparto, poi capo gruppo, responsabile di provincia con Monsignor Livetti – don Claudio – che fu assistente provinciale e poi responsabile di zona, quando vennero create le zone.
Oggi, da 15 anni, presto servizio per le basi scout. In collaborazione con la Fondazione e Ente Baden, nel 2004 abbiamo inaugurato la base scout in Val Codera, la “centralina”, e abbiamo costituito la comunità capi Codera 1, che gestisce le attività scout in tutta la Valle. Sono entrato per la prima volta in Codera nel ’65, per un campo di noviziato e da quel momento sono state centinaia le mie visite. Ho conosciuto Monsignor Andrea Ghetti (Baden) quando dirigeva il mensile della diocesi e mi chiese di collaborare per delle illustrazioni. L’impegno in Codera è ed è stato grande: riconquistare la fiducia ed allacciare i rapporti con la gente di Codera, l’acquisto della baita, l’affitto della seconda in collaborazione con il Consorzio dell’Alpe Bresciadega, che la utilizzava in modo condiviso con i proprietari, per fare il formaggio (da cui il nome: “La Casera”) e poi il terreno a Bresciadega. Oggi la base di Codera si trova dislocata in diversi punti della valle. Tuttavia, il mio primo amore rimane Colico. Colico, uno dei “luoghi educanti” del mondo scout, è stato il mio primo servizio dopo il mio ritiro dalla carica di capo gruppo. Naturalmente non ero solo a gestire il tutto: insieme alla Pattuglia Regionale Ambiente, della quale ero parte, mi occupavo della custodia della base e dell’organizzazione delle attività.

Come si è modificato lo scoutismo a Busto? Vedi differenze tra gli scout di allora e gli scout di oggi?

Certo che le cose sono cambiate. Il mondo cambia. Sicuramente è cambiato molto il modo di fare scoutismo, ma lo spirito è lo stesso di cento anni fa.
CarloValentini1 Negli anni ’50 e ’60 non era semplice essere scout a Busto Arsizio. C’era molta ignoranza e venivamo presi in giro. Soprattutto era difficile il rapporto con i parroci. Noi non eravamo propriamente parrocchiani e quindi apparivamo fuori da ogni regola. Dopo il nostro assistente don Giuseppe Ravazzani, per molto tempo non abbiamo più avuto assistenti ecclesiastici parrocchiali o ce ne sono stati pochissimi; erano frati, missionari, studenti del seminario di Venegono…
Effettivamente, lo scoutismo non nasce dall’interno della Chiesa, ma è ecclesiale perché vive i valori cattolici.
Solo in tempi recenti assistiamo a una rinata capacità di dialogo e collaborazione tra parrocchia e mondo scout. Si comprende finalmente che c’è una complementarietà.

Che rapporto c’era allora con la cittadinanza e il comune?

Negli anni ’60 eravamo un gruppo piccolo, una ventina di esploratori e pochi capi. La nostra visibilità si limitava a comparse quando aprivamo le processioni in uniforme. Sul piano numerico non eravamo abbastanza per entrare in rapporto con la cittadinanza. Se cresce il numero, cresce anche la consapevolezza. Oggi, molto di quello che lo scoutismo offre nell’ambito dell’educazione al senso civico è testimoniato da persone che dallo scoutismo sono uscite, come esponenti politici e amministratori comunali di Busto. Questo ha aiutato lo scoutismo a guadagnare considerazione e rispetto via via sempre meno marginali.

Come si colloca il Busto 3 in tutta questa storia?

Parlavo di numeri… Sicuramente la quantità fa tanto e i grandi numeri sono presi in considerazione molto più facilmente.
Da quando è nato, nel 1980, il Busto 3 è sempre stato un gruppo numeroso, che ha sicuramente aiutato il dialogo con l’amministrazione comunale.

Come immagini una Busto senza scout?

Busto senza scout? E come faccio a immaginarla? Tutta la mia vita è stata spesa nello scoutismo. Sicuramente gli scout hanno dato un grosso contributo alla città; hanno fatto crescere una coscienza, hanno dato la sveglia a molti giovani. Questo lo si vede dall’accresciuta considerazione sia da parte dell’amministrazione, sia da parte della Chiesa.
La testardaggine di testimoniare il bene paga, ma ci vuole pazienza, come ce ne è voluta per recuperare la baita in val Codera.

Cosa vede per il futuro del movimento scout a Busto?

Che dire? Penso che possiamo andare avanti su questa strada, “con l’aiuto di Dio”, visto che in un certo qual modo siamo in missione per conto di Lui.
Per me, lo scoutismo non ha bisogno di numeri. Oggi abbiamo circa 180.000 scout e guide AGESCI in Italia, ma è forse meglio di quando ce n’erano 80.000? Certo, cambia il peso e l’autorevolezza dell’associazione, ma il numero non ha l’importanza maggiore. Bisogna insistere sulla qualità!
Non voglio fare come gli anziani che ripetono sempre “ai miei tempi…” e non lo dirò, ma sono certamente cambiate le condizioni.
Ricordo ad esempio, che per accedere al campo scuola di Colico, per la formazione capi, bisognava percorrere un sentiero disseminato di prove tecniche e c’era gente, che trovandosi incapace di superarle, tornava a casa.
Era considerato molto importante il saper fare e il saper fare bene.
Vi faccio un esempio: il nodo non è il semplice congiungere due corde; il nodo ha un valore educativo. Conoscere l’alfabeto morse, il semaforico, saper leggere una mappa… che significato possono avere queste cose nell’era della messaggistica istantanea e del GPS? Ebbene, noi crediamo che imparare a fare queste cose, saper leggere una mappa, aiuti il ragionamento e la crescita del ragazzo e, ancora adesso, abbiamo il coraggio di proporre la topografia.
Poi un’altra grande sfida con cui bisognerà confrontarsi è sicuramente quella dell’interculturalità e dell’inter-religiosità… insomma, come dicevo, si può solo continuare a camminare con testa e gambe, ricercando uno scoutismo autentico. Per questo penso che la Codera, altro luogo educante, sia uno dei posti migliori, poiché fornisce condizioni ambientali ottime per fare vero scoutismo. In quanti luoghi possiamo ancora accendere fuochi, cucinare all’aperto?
Un tempo le Aquile randagie salivano quassù ricercando un luogo nascosto, per fare scoutismo libero, cosa che non era possibile a Milano. Oggi tutto è cambiato ma, un po’ come allora, lo scoutismo non si può fare proprio ovunque. Qui si può recuperarne davvero l’originalità.

Ringraziamo Carlo e ci ripromettiamo di fare al più presto una visita alla centralina, su in Codera. Ancora oggi, come negli anni ’40, non esiste una funivia per arrivarci; è possibile raggiungerla solamente salendo con fatica i famosi gradoni che conducono alla valle. Sì, ci vuole fatica: un’esperienza sempre meno banale, che spaventa molti, ma che nostro malgrado resta il motore di qualsiasi impresa degna di questo nome.
Forse, proprio questo può essere un augurio per i prossimi cento anni: non perdere mai la voglia di fare fatica per fare, fare bene, fare il bene.
Buona caccia e buona strada!

Erica Oldani