Cari amici ed amiche di Generazione X, dovete sapere che in una grande metropoli del nostro paese viveva un ragazzino di nome Roberto, il cui più grande desiderio era di riuscire a vedere un albero vero. Non uno di quegli alberi brutti e grigi che si trovavano in città, a lato delle strade trafficate. Roberto voleva una foresta rigogliosa e piena di vita, come quelle che finora era riuscito a trovare solo sulle pagine di un libro sponsorizzato dal National Geographic che aveva ricevuto alcuni anni prima a Natale.
Aveva provato più volte a convincere i suoi genitori a portarlo in un posto pieno di natura, ma loro non facevano che ripetergli che per fare una cosa del genere bisognava aspettare le vacanze e, quando un soleggiato pomeriggio di primavera aveva proposto alla madre di andarci da solo, così non avrebbero dovuto prendere le ferie, lei si era limitata ad accarezzarlo, dicendogli che era ancora troppo piccolo, ed era tornata a curare i fiori che teneva sul balcone.
Ma Roberto non si sentiva affatto piccolo, così, durante un uggioso sabato pomeriggio, uscì di casa deciso a trovare quella natura che da tempo andava cercando.
Purtroppo per lui però l’impresa si rivelò ben presto più ardua del previsto. Roberto sperava che, allontanandosi dal quartiere, le condizioni dei vegetali che avevano la sfortuna di abitare in città migliorassero, ma la sua era una speranza vana. I pochi alberi che era riuscito a trovare lungo i marciapiedi erano contorti, secchi e tristi. Gli ricordavano gli alveoli di un fumatore che aveva visto sul libro di scienze. Incominciava poi a chiedersi a cosa potessero servire i cartelli con su scritto “Vietato calpestare l’erba”, chi mai si sarebbe sognato di toccare con una qualunque parte del proprio corpo quei quattro ciuffi marroni? Forse avevano ragione i suoi genitori, e lui era troppo piccolo per spingersi lontano da solo a cercare la natura. O forse non si era spinto lontano abbastanza?
Improvvisamente, gli venne un’idea! A scuola aveva imparato che spesso la natura si trovava ai limiti più esterni delle città, nelle cosiddette “cinture verdi”. Gli sarebbe bastato spingersi fino ai quartieri più lontani per trovare ciò che stava cercando! Così, senza attendere oltre, andò a cercare una fermata dove prendere il primo autobus, deciso a non scendere prima del capolinea.
Roberto aveva viaggiato per più di un’ora, ma la destinazione a cui era arrivato era ben diversa da come se l’aspettava. Al posto degli alti tronchi marroni aveva trovato vecchie ciminiere storte e sbeccate; sopra la sua testa non si trovavano centinaia di foglie verdi di forme diverse, ma solo monotone parti di tetto in decomposizione o sporche travi d’acciaio che lasciavano intravedere un cielo che andava facendosi sempre più grigio, come il suo umore.
Il ragazzo si rese conto di essere finito all’interno di una qualche fabbrica abbandonata, un posto dove era impossibile trovare quel tipo di natura lussureggiante che stava cercando. Triste e deluso per l’esito fallimentare della sua ricerca, Roberto decise di tornarsene a casa; incoraggiato anche da tuoni che, in lontananza, avvertivano dell’imminente arrivo di un violento temporale.
Ma dopo aver percorso solo pochi passi verso il cancello da cui era appena entrato, il suo udito fu colpito da un rumore insolito, come una specie di guaito, provenire da qualche parte all’interno della fabbrica. Curioso di scoprirne l’origine, e di fare qualcosa che rendesse quella giornata un po’ meno brutta, corse a cercare l’origine di quel suono.
Dopo molto girovagare per quell’edificio sconosciuto, Roberto si ritrovò davanti ad una rete di metallo oltre la quale c’era, con una delle gambe posteriori incastrata in un’apertura, un cane.
I due si osservarono brevemente. L’animale aveva un pelo straordinariamente curato, e sembrava essere fin troppo abituato alla presenza dell’umano per essere un randagio: “Che sia stato abbandonato?” pensò Roberto avvicinandosi per liberargli la zampa. Una volta riacquistata la propria libertà di movimento, l’animale schizzò via all’interno della fabbrica, lontano dallo sguardo del proprio soccorritore.
Leggermente rincuorato per avere fatto finalmente qualcosa di costruttivo, Roberto pensò che avrebbe fatto meglio a comportarsi come l’animale ed uscire da lì il prima possibile. Sarebbe bastato girarsi, camminare dritti per un po’, poi svoltare a sinistra alla colonna crollata e si sarebbe trovato subito fuori.
Oppure doveva girare a destra?
Non appena il ragazzo si rese conto d’essersi perso, avvertì una profonda sensazione di freddo partirgli dalla testa, per poi avvolgere rapidamente tutto il suo corpo. Inizialmente la etichettò come una reazione emotiva dovuta al fatto di essersi perso in un luogo sconosciuto e potenzialmente pericoloso, ma ben presto si accorse che tutto intorno a lui il terreno si stava velocemente riempiendo di piccoli cerchi di colore più scuro.
Il ragazzo corse dentro ciò che rimaneva l’edificio per cercare rifugio, ma fu tutto inutile. Il tetto era crollato praticamente ovunque, eliminando ogni possibilità di trovare un riparo dalla pioggia, che intanto si faceva sempre più forte. Disperando di trovare una qualsiasi via di fuga da quella situazione, Roberto stava per arrendersi quando, in mezzo alla fitta massa d’acqua, notò una piccola macchia scura che si dirigeva verso di lui. Inizialmente intimorito, le sue preoccupazioni svanirono quando, oramai arrivato a circa un metro di distanza, la macchia si rivelò essere il cane che aveva salvato poco fa.
I due rimasero immobili a guardarsi l’un l’altro. L’animale, in particolare, guardava Roberto come se stesse valutando se metterlo al corrente o meno di un segreto. Terminate le proprie riflessioni, il cane abbaiò, ed incominciò a correre nella direzione da cui era venuto. Roberto, temendo di rimanere solo, si mise ad inseguirlo.
Il temporale si stava scatenando in tutta la sua furia; ovunque gli elementi del paesaggio erano stati sommersi da una massa d’acqua grigia che ne aveva sfumato i contorni, rendendo pressoché impossibile per Roberto capire esattamente dove quell’animale lo stesse portando, ammesso che lo stesse portando effettivamente da qualche parte. Più passava il tempo, più il ragazzo si convinceva di essersi lasciato trascinare in un inutile gioco. Eppure, nonostante questi pensieri continuava ad inseguirlo convinto, forse inconsciamente, che fosse la cosa migliore da fare.
Roberto si rese conto di aver fatto la scelta giusta quando, quasi senza accorgersene, si ritrovò in un luogo asciutto. Davanti a lui, quelli che ad una prima occhiata erano i resti un una colonna di cemento armato, un tempo dipinta di un giallo ormai sbiadito; dietro, un muro di acqua grigia che non accennava a diminuire di intensità; sopra, ad almeno un paio di metri d’altezza, un soffitto dall’aspetto strano, la cui esatta composizione era reso ancora più misterioso dalla perenne ombra in cui era bloccato quell’angolo asciutto.
Dopo essersi asciugato il pelo con una robusta scrollata, il cane si avvicinò al ragazzo che, dopo essersi seduto a terra, incominciò ad accarezzarlo.
Dopo quella che gli era parsa un’eternità, le nuvole di pioggia si dispersero, lasciando libero il sole di tornare ad illuminare tutto coi suoi caldi raggi. Roberto approfittò di quel repentino cambio di clima per uscire dal proprio rifugio e cercare di asciugarsi un po’ i vestiti ma, non appena entrò di nuovo in contatto con l’ambiente esterno, si rese conto di una cosa spettacolare.
Il soffitto che fino a poco tempo prima non era stato in grado di identificare era in realtà la foltissima chioma di un albero, il cui tronco era cresciuto fino quasi ad inglobare la colonna di cemento sul quale era appoggiato. Inoltre tutto intorno a lui numerose piante d’edera avevano reso di un acceso colore verde le vecchie pareti della fabbrica. Scintillanti gocce di pioggia ancora riposavano sulle foglie, come tante piccolissime stelle su di un cielo color menta. Le pozzanghere poi avevano trattenuto dentro di loro tutti i colori dell’arcobaleno, riuscendo a dare vivacità addirittura alla vecchia strada in disuso. Euforico per essere finalmente riuscito a portare a termine la sua missione, Roberto si chinò di nuovo ad accarezzare il cane che ormai aveva incominciato a seguirlo: «Sei stato fantastico!» disse. «Non avrei mai trovato tutto questo se non fosse stato per te, grazie…» e qui si interruppe. Come si chiamava il suo nuovo amico sprovvisto di medaglietta? Visto che ormai sembravano destinati a stare insieme, gli sembrava giusto dargli un nome vero e proprio, ma quale? Dopo una breve riflessione, Roberto ebbe una bella idea. Le qualità che il suo nuovo amico aveva dimostrato di possedere erano state intraprendenza e conoscenza del territorio e, almeno secondo quanto scritto nel suo libro del National Geographic, quelle erano le caratteristiche che descrivevano perfettamente un preciso tipo di persona: «D’ora in poi ti chiamerai “Esploratore”, che ne dici?»
Esploratore abbaiò in segno d’assenso.
Due settimane più tardi, Roberto uscì sul balcone per controllare lo stato del piccolo germoglio che aveva piantato qualche tempo addietro. Era da un po’ che aveva iniziato anche lui, come sua mamma, a coltivare l’hobby del giardinaggio. Del resto, grazie alla sua avventura, aveva capito che la bellezza della natura poteva sbocciare ovunque, anche in una città grande ed affollata come la sua.
E poi, da quando era quasi scappato di casa, i suoi lo avevano messo in punizione, proibendogli di uscire per almeno un mese, quindi si era dovuto inventare qualcosa che gli permettesse di rimanere in contatto con la natura fino a quando lui ed Esploratore non sarebbero partiti per la loro prossima avventura.
Tricheco birbante